“L’arte opera in una profondità anteriore alla morale, in un punto dove il valore si trova ancora in statu nascendi. E’ l’arte che, come espressione spontanea della vita, assegna compiti all’etica, e non il contrario. Se l’arte avesse solo la funzione di confermare ciò che è stabilito, sarebbe inutile. Il suo ruolo è quello di una sonda affondata in ciò che non ha nome. L’artista è l’apparecchio che registra i processi in atto nelle profondità, là dove si crea il valore.”

Devo ad Alessandra De Santis il recupero di questo passaggio da un’antica (1935) intervista a Bruno Schulz, l’autore delle Botteghe color cannella. Schulz è stato punto di riferimento e fonte d’ispirazione per Tadeusz Kantor, della cui scomparsa (1990) il Comune di Milano ricorda il ventennale con una serie di interessanti iniziative, avviate appunto lo scorso anno. Da ammiratore dei suoi ultimi lavori, non posso non immaginare quale spettacolo geniale Kantor trarrebbe da queste celebrazioni, facendo sfilare a modo suo antichi amici e nemici, seguaci veri o presunti, assessori, critici e professori, col sottofondo ossessivo di un valzer: Aujourd’hui c’est mon vingtième anniversaire. Peccato: è uno spettacolo che non vedremo mai. Ma la memoria di maestri del Novecento come Schulz e Kantor può restare viva, al di là degli indispensabili studi e convegni, solo se si torna a dar vita all’idea dell’autonomia dell’arte dall’etica e dalla politica.

L’ambiente, diciamo, non aiuta. La pornocrazia, o il “potere grottesco” di cui ha parlato Žižek su “Alfabeta2″, ha una sorta di forza ipnotica, che ci spinge, per reazione, a difendere o riaffermare degli standard di decenza che si davano per scontati. Chi lavora nella cultura e nelle arti si ritrova così, volente o nolente, risucchiato dall’impellenza del moralismo (che, tra l’altro, ha in Italia un notevole mercato, sia nella sua versione predicatoria che in quella satirica). Vieni via con me, la trasmissione di Fazio e Saviano, ha ben rappresentato la trasversalità e l’appeal mediatico di questa tensione etica talora un po’ generica, ma sentita. Ogni forma di moralismo porta con sé la sua dote di ipocrisia – e certo la cultura italiana, che non è più di sinistra, dalla sinistra storica ha ereditato un’utile doppiezza tra il radicalismo delle parole e il pragmatismo degli atti. Ma la mia impressione è che tale doppiezza stia per venire meno, perché la brutalità del potere politico ci indurrà sempre di più a prendere posizione sul serio.

Nella lotta tra buoni e cattivi, in mancanza di meglio, conto di stare con i buoni. Tuttavia, il ventennale di Kantor mi aiuta a non dimenticare che il lavoro di scrittore – riuscito o fallimentare che sia – ha da collocarsi prima di questa lotta, e altrove.