In dieci anni di laboratori per il progetto Teatro Utile, promosso dall’Accademia dei Filodrammatici, più volte abbiamo verificato, attraverso appositi esercizi di scrittura, quanto possa essere proficuo affrontare il tema delle migrazioni attraverso una rielaborazione drammaturgica di immagini, anziché a partire da tracce narrative.
Nel 2022 io e Tiziana Bergamaschi abbiamo voluto spingerci ancora oltre, proponendo come principale materiale di studio alle autrici e agli autori coinvolti nel laboratorio un insieme di opere d’arte contemporanea che stimolassero riflessioni ed emozioni intorno al corpo del migrante. Ne sono nati sette testi brevi, ciascuno ispirato a un’opera diversa (video, installazioni, performance), che saranno presentati in forma di lettura scenica il 13 settembre al Teatro Filodrammatici di Milano.
Filo conduttore della serata sarà una surreale asta presentata da Tore Bandi, personaggio scritto e interpretato da Alice Redini. Come Alice, hanno esperienza attorale e saranno presenti e attivi in scena anche gli altri partecipanti al laboratorio. Insieme hanno esplorato le opportunità, le contraddizioni e i rischi insiti nella rappresentazione o nell’evocazione del corpo del migrante in ambito artistico (e dunque anche teatrale). Le loro proposte drammaturgiche, spesso in chiave satirica o tragicomica, rilanciano questioni irrisolte, riaprono antiche ferite. La tensione tra necessità espressiva e meccanismi di mercato si riverbera, tanto per cominciare, nella crisi esistenziale del banditore buffo e disperato di Alice Redini.
Ma la domanda sulla legittimità dell’atto artistico, che turba il sincero impulso alla denuncia di ciò che appare sempre più intollerabile, riemerge in gran parte dei nostri “corti” – a cominciare da Il volo. Making of di Giulia Lampignano. Qui, fantasticando sulla preparazione del video Centro di permanenza temporanea di Adrian Paci, l’autrice drammatizza il senso di attesa vana già presente nell’opera, focalizzandosi soprattutto sull’impossibilità, per i migranti, di prendere la parola. Anche il corpo (migrante?) al centro di A caduta libera di Pouria Jashn Tirgan è muto, perché conficcato fino alla vita nella terra, a testa in giù, come nell’immagine della performance Embodying Borders #2, di Nations 25 e Kinkaleri, cui il testo si ispira. A parlare, e tanto, sono i tre personaggi che si imbattono nella strana visione, dando voce a opposti pregiudizi, supposizioni e proiezioni mentali di osservatori privilegiati che ci assomigliano.
Paralizzato nell’attesa, poi mutilato e ammutolito, il corpo del migrante si dilegua nelle opere d’arte e nei testi successivi, continuando però a farsi presente, con crescente intensità, attraverso la memoria e le emozioni suscitate da certi oggetti. Così Tomàs Acosta, nel suo Il sogno nel mare, immagina di immergersi tra gli abiti usati dell’installazione La mer morte di Kader Attia, nel tentativo di mettersi in contatto, evocandole sensorialmente, con alcune figure a cui quei vestiti, dispersi durante una traversata in mare, potrebbero essere appertenuti. E Nadia Najim, in Hope to die, assorbe ed esaspera la carica provocatoria di Hope di Adel Abdessemed, facendo dialogare tra di loro, con umorismo nerissimo, i grossi sacchi della spazzatura che l’artista ha collocato su una barca rovinata dal mare, un tempo usata per trasportare illegalmente migranti.
Un umorismo nero e scorretto caratterizza anche Un palloncino finito, in cui Athos Mion dà voce – anzi, letteralmente, respiro – a un brandello di plastica, residuo del naufragio o dell’esplosione di The Law of the Journey, monumentale gommone con a bordo 250 migranti in PVC ideato da Ai Weiwei. Questa tensione verso l’annientamento dell’opera d’arte, attraverso corto-circuiti drammaturgici che evidenziano la sua impotenza e i suoi paradossi, torna, in diversa chiave stilistica, nell’immaginaria incursione di Malik Yahia Cherif dentro alla “giungla” di Calais, l’enorme accampamento per migranti in transito verso il Regno Unito in cui Banksy ha realizzato uno dei suoi più famosi murali, The Son of a Migrant from Syria. In La frequenza delle onde luminose – ovvero il figlio di un migrante siriano lo Steve Jobs bidimensionale e stilizzato di Banksy se la deve vedere con le domande, le accuse, le rivelazioni di alcuni abitanti della “giungla” in carne e ossa.
A fine percorso, Ballata sotto le stelle, la partitura poetica e musicale costruita da Didi Garbaccio Bogin, rivisita con delicatezza la metafora al centro del progetto artistico di Bouchra Khalili, che, in The Constellation Series, ha trasposto le traiettorie dei viaggi di alcuni migranti su uno sfondo blu intenso, rendendole simili a costellazioni nel cielo notturno.
Nel discorso pubblico, il racconto delle migrazioni e la rappresentazione dei corpi dei migranti sono sempre di più manipolati e strumentalizzati a fini di propaganda. Che cosa possono fare le arti (teatro incluso) per contrastare questa deriva? Non certo, dal mio punto di vista, affermare una verità fattuale, o cercare di sostituirsi all’informazione e alla politica; ma insistere ad avventurarsi con lo sguardo nella complessità e nelle contraddizioni del presente. Uno sguardo curioso e disarmato, talvolta empatico, talvolta critico, ma che non si arroga mai il diritto di presumersi innocente.