Quale sarà, o potrebbe o dovrebbe essere il ruolo delle quattro grandi scuole civiche di Milano nei prossimi, diciamo, dieci anni? Tra dieci anni esisteranno ancora? E vale la pena impegnarsi, forse additittura combattere, perché continuino a esistere? Sono domande per me urgenti e – lo ammetto – interessate. Infatti mi sono diplomato come attore in una di queste scuole (la “Paolo Grassi”, verso la fine degli anni ottanta) e da tempo insegno stabilmente drammaturgia nella stessa “Paolo Grassi” e alla “Luchino Visconti”. Ma credo che la questione riguardi, al di là degli addetti ai lavori, la cittadinanza in senso lato. O comunque chi ritiene che sia ancora possibile definirsi cittadino.

Il Comune di Milano, si sa, ha una grande tradizione, unica in Italia, di impegno diretto nell’educazione e nella formazione professionale aperte a tutti, a prezzi accessibili. È una tradizione obiettivamente difficile da portare avanti, per via di politiche nazionali che, anziché premiarla e incentivarla, la penalizzano. Nell’ampio ventaglio di scuole civiche milanesi spiccano, per dimensioni, prestigio e costi, quelle di Teatro, di Cinema, di Musica e di Lingue, dal 2000 riunite nella Fondazione Milano, di diritto privato ma ancora finanziata dal Comune in virtù di una convenzione che scadrà nel 2030. E tale scadenza, a mio avviso, è uno dei motivi dell’urgenza di un dibattito sul ruolo e la funzione di queste scuole. C’è un’altra scadenza, ancora più ravvicinata: la costruzione, finanziata con i fondi del PNRR, nell’area della Goccia alla Bovisa, di una nuova sede delle scuole, che dia concretezza materiale all’idea, a lungo coltivata, di un Politecnico delle Arti, valorizzando così le connessioni già esistenti tra i quattro indirizzi e dando l’opportunità di realizzare ulteriori sinergie.

Un obiettivo condivisibile, credo, sarebbe articolare e arricchire il progetto del Politecnico, discutendone dentro e fuori dalle scuole, in modo che non corra il rischio di limitarsi ad andare a rimorchio di un’operazione immobiliare; e che in seguito a ciò il Comune rinnovi il sostegno alle scuole civiche oltre il 2030. Ma per lavorare seriamente verso un simile obiettivo bisogna chiarirsi sulle premesse, allargando un po’ lo sguardo. La formazione ai mestieri artistici in Italia sta diventando, sempre di più, un lusso. E il poter praticare questi mestieri, ancora e sempre di più, una prerogativa medio-alto borghese. Quando ho cominciato a studiare teatro, ormai quasi quarant’anni fa, la situazione non era sostanzialmente diversa; ma un po’ migliore, sì. Non era, intanto, del tutto naufragata l’idea – certo imperfetta, incompiuta, monca fin dalla nascita – di teatro pubblico. Non si era ancora completata la metamorfosi delle ideologie in “narrazioni”, né il trionfo della comunicazione come surrogato della cultura. Era possibile, almeno in certe nicchie (alcuni teatri stabili, il cosiddetto “teatro di ricerca”, vari centri di studio e formazione), lavorare in tempi lunghi, al riparo dall’ansia da evento. Ecco, senza alcuna nostalgia per gli anni ottanta e novanta, io credo che si debba recuperare oggi, con modalità diverse, un rapporto meno opprimente con il tempo. Tempo di studio, tempo per le prove, tempo di esposizione a un pubblico e di rielaborazione. Tempo in cui possano maturare un rapporto profondo con la tradizione teatrale e la capacità di trasformarla davvero, senza farsi illudere da innovazioni effimere e superficiali. E i luoghi da cui ripartire, per riscattare il tempo dal dilagare della precarietà, della frammentazione, dell’isteria comunicativa, non possono che essere le scuole. Necessariamente, orgogliosamente pubbliche – dunque selettive per talento, non per censo.

Non ci possiamo permettere il fatalismo del “non ci sono alternative”. Così come in settori più politicamente “strategici”, anche in quello delle arti dello spettacolo bisogna rivendicare un aumento di investimenti pubblici mirati, trasparenti, liberi da commistioni ambigue con interessi privati. La riflessione e il dibattito sul futuro delle scuole civiche milanesi può così diventare parte di un impegno più ampio e articolato, di cui siano protagonisti, nella critica ma più ancora nella proposta, i lavoratori, gli artisti, gli insegnanti e gli studenti.