“Facciamo finta di non conoscerci”. Come mi è venuto in mente, prima di accendere il registratore, di proporre a Mauricio un patto palesemente impossibile da mantenere? Stavo forse indulgendo al mio consueto virtuosismo nella simulazione del distacco?
La nostra lunga e fraterna amicizia è iniziata nella seconda metà degli anni ottanta, quando eravamo studenti della “Paolo Grassi”; io del corso di recitazione, lui del corso di regia. Devo al sodalizio con Mauricio la mia formazione drammaturgica sul campo, in diversi spettacoli prodotti dal CRT di Milano, da Lettere alla fidanzata (1989) a Moro e il suo boia (1994). Cittadino brasiliano e italiano, dalla fine degli anni novanta è tornato a vivere e lavorare nella sua São Paulo, ma con ripetute incursioni in Italia, Portogallo e Scozia. A Glasgow ci siamo poi ritrovati, nel nuovo millennio, a collaborare come artistic associates della compagnia teatrale Suspect Culture.
Incontro Mauricio a Polcenigo, in provincia di Pordenone, dove risiede durante i suoi frequenti soggiorni italiani. Questa nostra conversazione verterà sul suo percorso artistico degli ultimi due decenni, svolto soprattutto in Brasile, non solo come regista teatrale, ma come drammaturgo, sceneggiatore e docente alla Scuola di Teatro di São Paulo.
R: Come è cambiato nel tempo e nei diversi Paesi in cui hai lavorato il tuo modo di creare spettacoli?
M: In Brasile il teatro, rispetto all’Italia, dipende un po’ meno dallo Stato, che finanzia pochissimi teatri e compagnie; ci si sostiene in grande prevalenza con fondi privati e le produzioni sono molto povere. Io ho lavorato in Italia, Portogallo, Scozia e Brasile, realizzando spettacoli di dimensioni e budget molto diversi. I sistemi teatrali e le modalità produttive sono i più vari, ma con un punto in comune: l’attesa di una congruenza tra il progetto, con le sue voci di spesa, e lo spettacolo che andrà in scena. E questo per me è sempre stato un problema. Non che non mi piaccia scrivere progetti – anzi. Li preparo in dettaglio e in modo piuttosto tradizionale. Ma il progetto per me è solo l’inizio del lavoro, non è un piano ingegneristico da realizzare pedissequamente. Già al primo giorno di prove, sono pronto a “buttare via” quel progetto cui tanto ho pensato. Perché la persona umana sarà sempre più grande e importante di ciò che, prima di incontrarci sulla scena, avrò pensato di farle fare. In tutti questi anni ho ottenuto i migliori risultati attraverso l’ascolto e il rispetto degli attori e dei miei collaboratori nel tempo presente della loro condizione; una condizione che può cambiare da uno spettacolo all’altro, dalle prove alla prima, tra una replica e l’altra. Ciò che ho sempre cercato di privilegiare è il flusso vitale del teatro, che nella sua transitorietà prevale su qualunque forma. Così anche la drammaturgia dei miei spettacoli, che con l’andare degli anni ho curato sempre più spesso, non può non essere in costante trasformazione.
R: La scrittura, in effetti, ha guadagnato sempre più spazio nel tuo lavoro artistico. Come è successo?
M: All’inizio gradualmente e quasi inconsapevolmente. L’esigenza di fedeltà al flusso vitale mi costringeva a rimettere costantemente le mani sul testo, in collaborazione con un dramaturg oppure da solo. Anche dopo il debutto, naturalmente. Non ho mai abbandonato uno spettacolo durante le repliche. Ogni sera tornavo a casa a riscrivere, rielaborare il copione per il giorno dopo. E attraverso questa pratica mi sono reso conto della grande libertà che mi deriva dalla scrittura. Se dirigere uno spettacolo, in termini di impegno e responsabilità, è come guidare un treno, scrivere un testo per me è come guidare una motocicletta. Ero e sono ancora abituato a raccontare storie a voce, ma non prevedevo che sarebbe stato così divertente e gratificante scriverle. C’è anche un fattore esistenziale che è stato importantissimo nel mio avvicinamento alla scrittura. Sono da tempo portatore di sclerosi multipla e sono sopravvissuto a un tumore potenzialmente mortale. Mi posso spostare solo in sedia a rotelle, il che ha reso ogni aspetto della mia vita più difficile – incluso l’accesso ai teatri e ai palcoscenici, che solo di rado sono adeguatamente attrezzati. Le limitazioni fisiche e la percezione di vicinanza della morte mi hanno portato a vedere le cose diversamente; e a cercare di trasmettere questa visione scrivendo. Certo, le storie che scrivo, come quelle che racconto oralmente, risultano sempre piuttosto strane…
R: In Brasile hai collaborato come sceneggiatore a diversi film. Che cosa ti guida nella scrittura per il cinema? In che cosa trovi che sia diversa da quella teatrale?
M: Se il teatro, come diceva Kantor, è davanti allo spettatore, il cinema è per lo spettatore. La bidimensionalità del cinema mi dà un senso di libertà ancora maggiore. Mi affido alle immagini, vedo scorrere davanti a me il film che sto scrivendo, senza pensare alla storia. Per dirla con Buñuel: sogno a occhi aperti. Talvolta succede che io faccia delle riprese con il telefonino e successivamente io scriva quel che ho già girato come appunto visivo. E nemmeno sono abituato a elaborare trattamenti: scrivo direttamente le scene, perché me le vedo davanti. In un certo senso, trascrivo i dialoghi man mano che li “ascolto”.
R: Ci siamo formati insieme alla “Paolo Grassi” di Milano, in cui hai anche insegnato negli anni novanta. Ora sei docente alla Scuola di Teatro di São Paulo. Ci parli del tuo lavoro didattico?
M: Per via delle mie condizioni di salute e della recente pandemia, insegno soprattutto a distanza. Le mie lezioni di cultura e storia teatrale sono destinate prevalentemente ad allievi del “corso di estensione culturale”, extra-curricolare. Per me l’insegnamento online non è una limitazione – anzi. Apprezzo l’opportunità di poter raggiungere una platea più ampia, fino agli angoli più remoti del Brasile – e non solo. Le mie registrazioni video e i miei interventi scritti sono disponibili per tutti i paesi lusofoni. Recentemente, per esempio, ho tenuto un ciclo di tre mesi di lezioni sulla “letteratura della pandemia”, mettendo in parallelo il racconto di Tucidide con le cronache dei nostri giorni. Tra i miei allievi ci sono aspiranti attori, registi e drammaturghi, ma anche gente comune, che non intende fare del teatro la sua professione. Questa è una cosa che mi piace molto. Dico quel che voglio, scrivo quel che voglio, senza subire alcun condizionamento. Esploro i processi creativi, cercando di scoprire insieme agli studenti come si può diventare scrittori, o comunque artisti, a partire dalla mia esperienza personale. Ricopro inoltre il ruolo di coordinatore della biblioteca della scuola, che si sta espandendo grazie a importanti lasciti testamentari da parte di critici teatrali brasiliani. Stiamo cercando di rendere la biblioteca sempre meno eurocentrica. Il Brasile è un paese che si è “autocolonizzato”. Gran parte dell’élite portoghese che l’aveva fondato se n’è andata durante l’Ottocento. L’élite bianca brasiliana contemporanea continua a dominare su una maggioranza nera della popolazione con un’attitudine coloniale. C’è tanta letteratura nera brasiliana che è stata trascurata e che cerchiamo di approfondire e valorizzare.
R: Insegnamento a parte, su cosa stai lavorando?
M: Sto collaborando alla riscrittura in chiave di fiction di una sceneggiatura di documentario sul sistema di potere brasiliano. Ma conto di stabilirmi per periodi più lunghi in Italia e di tornare a fare teatro, con accresciuta consapevolezza, anche qui. Non vedo l’ora!