È morta all’improvviso in un periodo carico di lutti e distanze obbligatorie, sicché noi che eravamo suoi amici, colleghi, provvisori compagni di strada non abbiamo potuto subito vederci per ricordarla insieme. Ma di Michelina, della sua complessità incendiaria, non si può parlare di fretta. E dunque forse è giusto così: niente celebrazioni o “coccodrilli” sui giornali e sui siti specializzati (nonostante la rilevanza e originalità del suo lavoro teatrale); ma il rilascio lento, costante di brandelli di memoria nelle molte persone a cui Michelina ha cambiato – davvero – la vita.

Ha impegnato la sua maturità artistica nella guida di una cooperativa e compagnia teatrale di detenuti nel carcere di Bollate. Quando, all’inizio degli anni dieci, mi ha chiamato a condurre un laboratorio di drammaturgia, per poi coinvolgermi nella scrittura scenica di un paio di spettacoli, lei recitava, dirigeva, organizzava, parava senza sosta i colpi, talora imprevedibili, di una soverchiante burocrazia senza soluzione di continuità, senza concedersi tregua, con un’energia generosa e spasmodica, sempre tesa al proprio limite.

Ecco, io credo che la scelta di mettere a frutto il suo talento teatrale in carcere abbia avuto a che fare con l’esplorazione – anzi, con la forzatura dei propri limiti, vissuta come necessità fisica ed emotiva. Michelina capiva molto bene la trasgressione, ne avvertiva sotto pelle il richiamo e il rischio: anche per questo nel suo rapporto con gli attori detenuti non c’era mai moralismo, condiscendenza, presunzione di una sostanziale differenza. Certo, sapeva riaffermare il suo ruolo di guida, con asprezza ove necessario; ma senza che venisse meno la ruvida, inconfondibile empatia di chi non si sente superiore, migliore, virtuoso.

La dialettica dentro/fuori, il paradosso di una libertà riscoperta, nei suoi fondamenti, all’interno della prigione, il rispecchiamento inquietante, senza redenzione, tra violenza criminale e violenza coercitiva somministrata dalle istituzioni: questi erano temi ricorrenti negli spettacoli di Michelina, nel periodo in cui abbiamo collaborato. Ma non venivano esplicitati in modo didascalico, o comunque a parole. Protagonista del suo teatro era il corpo; anche e soprattutto nelle lunghe fasi laboratoriali che precedevano la preparazione degli spettacoli. Estratti da fonti letterarie o filosofiche, o generate in sessioni di scrittura dai detenuti stessi, le parole si dipanavano in una successione poetica di analogie e violenti contrasti, in contrappunto all’azione coreografica e di rado seguendo un filo narrativo.

Michelina, dicevamo, ha davvero cambiato la vita a molte delle persone da lei incontrate in carcere, indicando e proteggendo molteplici vie riparazione, ricostruzione, nuova immaginazione di sé, soprattutto ma non esclusivamente attraverso la pratica teatrale. La sua disponibilità nei confronti dei detenuti, delle collaboratrici e dei collaboratori, di chi lavorava per l’istituzione carceraria, era estrema e non conosceva orario o calendario, esponendola ciclicamente al rischio di esaurire le proprie forze. Era consapevole di questa sua tendenza a spendersi all’eccesso; sapeva quanto pericolosa fosse per la sua salute e negli ultimi anni ha cominciato a contrastarla, prendendosi maggiormente cura di sé. La fine – per lei dolorosa ma inevitabile – dell’esperienza a Bollate, il ritorno nella sua Liguria e l’avvio di un nuovo percorso lavorativo andavano in questa direzione. Stava pensando, con ritrovata serenità e senza alcuna fretta, a come rimettersi in gioco sulla scena.

Coraggiosa e generosa d’impulso (ma al tempo stesso capace di profonde elaborazioni riflessive nel lungo periodo), Michelina non cercava gratuitamente il sacrificio e non aveva nulla in sé di ascetico. Né di eroico. La sua fragilità era lì in bella mostra, accanto alla sua forza. Amava i piaceri della vita e amava condividerli con le persone care, esprimendo affettuosa attenzione e senso dell’umorismo. Era un’artista dell’amicizia e come tale continuerò a ricordarla.