Tra il 4 e il 7 novembre si è svolto a Glasgow un raduno dell’IETM (International network for contemporary performing arts). Per l’occasione, mi sono unito a The Fence, un gruppo informale, attivo già da sette anni, di drammaturghi, traduttori e studiosi di teatro contemporaneo provenienti da tutta Europa . Oltre a poter assistere ad alcuni dei numerosi spettacoli di produzione scozzese proposti ai molti operatori internazionali presenti al convegno, ho avuto l’opportunità di mettere a confronto la situazione del teatro e in particolare della drammaturgia in Italia con quella descritta per le rispettive nazioni da colleghi britannici, francesi, polacchi, bulgari, cechi e slovacchi. Le discussioni si sono inevitabilmente ampliate fino a toccare temi di politica culturale e politica tout court, in un clima di generale preoccupazione per la crisi economica, i tagli ai bilanci statali e la diffusa avanzata di partiti e movimenti di destra ostili al sostegno pubblico alla cultura.

Ho sperimentato, una volta di più, la difficoltà di rendere conto in lingua inglese del “sistema”  italiano, le cui tortuose ambiguità sono a volte semplicemente intraducibili. Ma insomma, ho fatto del mio meglio – tenendo conto che metà del tempo va sempre perso a farsi deridere o compatire per il nostro presidente del consiglio, le cui battute sull’ultimo scandaletto ho sentito ripetute, in perfetta traduzione, durante un programma comico televisivo in prime time. Più interessante è stato senza dubbio ascoltare, soprattutto le non buone nuove da Inghilterra e Scozia, che avevano nelle riunioni la più nutrita rappresentanza di teatranti. Negli anni del New Labour il Regno Unito è stato una sorta di isola felice, con robusti investimenti nella cultura e, in ambito teatrale, un forte sostegno alle realtà che producono new writing. La Scozia ha interpretato il passaggio alla devolution in chiave di competizione culturale con i potenti vicini a sud, senza sostanziale soluzione di continuità tra i laburisti e i nazionalisti che li hanno sostituiti al governo di Holyrood. L’organizzazione sindacale dei drammaturghi scozzesi è molto unita e strappa da anni ai teatri condizioni contrattuali invidiabili. C’è perfino un’efficiente organizzazione pubblica, il Playwrights’ Studio, che sostiene la formazione degli scrittori teatrali, nonché lo sviluppo, la diffusione e la traduzione delle loro opere. Questo quadro si sta rapidamente incrinando, a partire dall’austerità imposta dal nuovo esecutivo Cameron/Clegg a Londra, le cui ricadute si stanno già facendo sentire in Inghilterra, ma presto giungeranno pure in Scozia, per via dei ridotti trasferimenti ai governi “devoluti”. Tutti gli enti sovvenzionati inglesi stanno subendo già quest’anno un taglio “lineare”, direi tremontiano, del 7%, a crescere progressivamente negli anni successivi. L’occupazione nel settore è messa uleteriormente a rischio dalla triplicazione delle tasse universitarie (che proprio ieri ha scatenato proteste di piazza da parte degli studenti), dato che molti playwright hanno anche insegnamenti precari nei dipartimenti teatrali delle università.

I colleghi britannici si ritrovano dunque ad affrontare un problema non molto diverso dal nostro: come riaffermare la necessità dell’investimento pubblico nelle arti e nell’istruzione in un tempo di sacrifici, tensione sociale, diffusa ansia per il futuro. Tale necessità è avvertita come ovvia solo in settori limitati, minoritari, delle nostre società, dove si è esercitata per decenni l’egemonia di quella che per convenzione continuiamo a chiamare “sinistra”: l’élite espressa da una classe media acculturata, ben intenzionata, occasionalmente ipocrita, sempre spiazzata dagli eventi, di rado in effettivo rapporto con i ceti popolari. Ecco: che il valore della cultura torni a essere avvertito al di fuori del recinto di questi settori mi pare un obiettivo arduo da raggiungere, ma sensato; senza uno sforzo in questa direzione, le contestazioni al Berlusconi, Sarkozy o Cameron di turno saranno presto derubricate a battaglie di retroguardia.