Dallo sciopero del riposo di novembre allo sciopero fantasma di marzo – precipitosamente revocato non appena il governo ha reintegrato il FUS (comunque a un livello miserando) – i lavoratori e le imprese dello spettacolo hanno dato una definitiva dimostrazione della loro cronica debolezza nei rapporti con il potere politico. Meno credibile che mai è stato il rituale sfoggio retorico di copertura, a rivendicare come vittoria di una presunta lotta la restituzione dell’osso ormai spolpato che era stato sottratto. Non c’è stata nessuna lotta, bensì un’ondata di proteste, amplificata dai media quando alcuni VIP si sono esposti; esemplare, in questo senso, la perorazione patriottico-melodrammatica orchestrata dal maestro Muti. Il ritorno di quei pochi quattrini nelle casse del moribondo ministero della cultura è tutto dovuto, così come la precedente andata, a faide tra governanti; mentre chi in buona fede credeva, protestando, di diventare protagonista si è ritrovato a fare, come sempre, la comparsa. Diversamente da una protesta, una lotta mette a rischio degli interessi, a partire dai propri. Questo rischio non viene assunto da chi produce spettacolo oggi in Italia, nemmeno nella misura di un giorno di sciopero “vero”. I grandi teatri sovvenzionati hanno una storia troppo lunga di rassegnata contiguità con il potere politico per ribellarsi sul serio. Le piccole realtà indipendenti devono occuparsi in primo luogo della loro precaria sopravvivenza, minacciata più dai selvaggi tagli agli enti locali che da quelli al FUS. Noi singoli teatranti a piede libero siamo poco organizzati, deboli e ricattabili. Ma è da questa debolezza che occorre ripartire, innanzitutto riconoscendola in quanto tale. Hanno fatto il loro tempo l’enfasi retorica a costo zero e l’auto-commiserazione di una borghesia di fu-sinistra che alimenta la propria falsa coscienza attraverso il consumo culturale. E’ perfettamente inutile contrapporre lo show dell’indignazione a quello dell’ignoranza e dell’arbitrio. Alle parole devono corrispondere dei fatti, altrimenti è meglio tacere.  E in operoso silenzio difendere l’autonomia, la dignità eccentrica e a volte clandestina del Teatro, che, come ci ricorda Claudio Morganti in un suo prezioso intervento su “Altre Velocità”, ben poco ha a che fare con lo Spettacolo dominante. Consiglio anche la lettura del saggio (a mio avviso per nulla “conservatore”) di Graziano Graziani Disoccupate le strade dai sogni, da cui Morganti ha preso spunto per riformulare a suo modo un’idea di netta separazione tra “esigenza politica” ed “esigenza estetica”.