Chissà se il nuovo ministro dei beni culturali Dario Franceschini vorrà dare seguito alla riforma del teatro via decreto avviata dal suo predecessore, Massimo Bray. Da quel che è emerso finora (si veda la bozza più recente, dal sito di ateatro), si tratta di un tentativo ambizioso, volto a riaffermare il ruolo centrale del teatro pubblico e a ristrutturare gerarchicamente i vecchi Stabili, con la creazione di una ristretta élite di Teatri Nazionali. Si raccoglierebbero istanze da decenni ricorrenti nel nosto ambiente, come la triennalità dei finanziamenti, o l’inserimento negli statuti di norme volte a limitare il rinnovo di mandati dirigenziali; si fisserebbero quote minime un po’ più alte di testi di autori viventi da produrre e di spettacoli “d’innovazione e ricerca” da allestire o ospitare. Tutto apprezzabile, almeno sulla carta; ed è forse l’ultima possibilità di allineamento del nostro sistema a modelli europei. Ma può bastare?
Se dalla carta e dagli schermi del web ci spostiamo alle tre dimensioni del teatro, facilmente possiamo osservare come la credibilità degli enti sovvenzionati rispetto alla propria funzione pubblica sia ormai ridotta agli sgoccioli. Alcuni sono ben amministrati, tengono faticosamente i conti in ordine, ma appaiono in sostanza quasi indistinguibili dai soggetti privati (pur godendo di un discutibile vantaggio competitivo sulla concorrenza). Da alcune settimane gira in rete un “appello al Teatro assente”, che stigmatizza, una volta di più, l’inadeguatezza da parte degli Stabili ad accogliere i migliori fermenti della scena contemporanea. Tale inadeguatezza però a mio avviso non deriva (non sempre) dalla cattiva volontà o dalla distrazione di chi li dirige. Ci sono problemi strutturali che vanno affrontati una volta per tutte. Un teatro pubblico, tanto più se Nazionale, deve essere un punto di riferimento affidabile, per artisti e compagnie da un lato e per la cittadinanza dall’altro. Ciò significa – fra l’altro – che dovrebbe lavorarci una notevole quantità di persone competenti nella valutazione di testi, progetti e spettacoli, insieme a un buon numero di professionisti capaci di far apprezzare a un pubblico ragionevolmente vasto opere inconsuete, innovative, non dotate di immediata presa commerciale.
Per limitarci al versante della drammaturgia, è stato mille volte sottolineato come negli Stabili non si trovi chi sappia e voglia leggere i nuovi testi (a parte, talora, qualche regista, a titolo gratuito). E’ questo il problema centrale, non la mera quantità di opere d’autore vivente prodotte ogni anno. In dissenso da molti miei colleghi, io sono sempre stato contrario alle “quote” (di autori viventi, di donne, di giovani, di giovani donne autrici viventi, e via dicendo). Sono pronto a difendere, paradossalmente, il direttore di un grande Stabile che decida di non mettere in scena alcun testo contemporaneo. Purché ne spieghi il motivo. Purché giustifichi la scelta all’interno di una linea culturale espressa in buon italiano. Ma allo stato attuale sembra che non ci si possa nemmeno permettere dei ghost-writer decenti. Che li si chiami dramaturg, literary manager, consulenti o come altro si vuole, è necessario assumere individui in grado di: selezionare con competenza nuovi copioni; facilitare l’incontro e la relazione tra autori e registi; accompagnare le produzioni nel rapporto con il pubblico in maniera sensata, non limitandosi a mere strategie di marketing. Tutto questo costa? Certo. E stiamo parlando solo del reparto drammaturgia – immaginatevi tutto il resto. Ma un vero teatro pubblico, di profilo europeo, costa molto di più del nostro. E non si può avere la pretesa di restituirgli dignità senza dargli le risorse adeguate.
Abbiamo già visto l’esito di riforme ambiziose, “di sinistra”, fatte coi fichi secchi – a partire da quella universitaria firmata da Luigi Berlinguer. Ora basta. Se il nuovo governo, in continuità col precedente, vuole puntare su questa riforma, la sostenga raddoppiando (almeno) i miseri fondi del FUS; altrimenti, si otterrà l’effetto paradossale di concentrare ulteriormente il residuo potere economico in pochissime mani, mentre un’ampia e vitale produzione indipendente continua a essere massacrata dai tagli agli enti locali, dalle tasse, dall’eccessivo peso della burocrazia. Se non ha la forza per sostenerla, meglio che vi rinunci; e meglio per noi dire addio a un’idea di teatro pubblico troppo lontana dalla realtà, battendoci invece perché i pochi soldi dei contribuenti siano utilizzati con priorità diverse da quelle attuali: detassazione, semplificazione burocratica, sostegno al welfare dei moltissimi lavoratori “intermittenti” del nostro settore.