Sì, lo so che sembra prematuro. Ma a me parrebbe utile pensare al da farsi dopo che sarà del tutto fallita la riforma del teatro che proprio in questi mesi si sta cominciando concretamente a realizzare. Beninteso, alcuni effetti pratici il decreto ministeriale che la contiene li otterrà senz’altro: in primo luogo, la chiusura o ulteriore emarginazione di compagnie e teatri indipendenti di piccole dimensioni, insieme a un accresciuto controllo politico/burocratico sugli enti sovvenzionati. Ma il fallimento cui mi riferisco è di natura ideologica, e a medio termine le sue conseguenze rischiano di ricadere non solo sui promotori della riforma, ma su tutto l’ambiente teatrale.
Parto da una semplice, banalissima constatazione. Esplorando mesi di dibattito in rete tra gli addetti ai lavori, non si trova uno, dico un solo intervento che illustri e difenda in buon italiano e con un po’ di passione le ragioni dei cambiamenti in atto. Abbondano invece articoli e post aspramente critici e molto ben argomentati, da parte di artisti e operatori di diverse estrazioni e orientamenti. Perfino i pochi che hanno espresso pubblicamente un cauto appoggio alle linee generali della riforma sembrano ora delusi e preoccupati dal modo confuso e opaco in cui s’inizia ad applicarla. Reazioni a tale massiccio dissenso? Nessuna. Se ne può forse dedurre che pure qui, come in altri ambiti, la voce di un’opinione pubblica qualificata non conta più http:\\/\\/renatogabrielli.ita, mischiata com’è a un assordante rumore di fondo; ignorare le obiezioni risulta così più comodo ed economico che entrare nel merito. Tuttavia, c’è un problema che va ben oltre i rapporti di potere all’interno del sistema dello spettacolo dal vivo, e investe piuttosto i rapporti del teatro con il resto della società – là fuori.
Come è stato giustamente sottolineato, il decreto ministeriale, anche dal punto di vista terminologico, spazza via ogni riferimento all’idea di teatro pubblico. Certo, un teatro pubblico vero e proprio non c’è mai stato in Italia, ma almeno nei decenni si sono visti tentativi di parziale approssimazione. Dall’eliminazione di questa prospettiva sarà molto difficile tornare indietro. Rimane – è evidente – un teatro sovvenzionato, invitato a riorganizzarsi secondo rigidi e invadenti criteri burocratici calati dall’alto; e se tali criteri risultano oscuri, vessatorii e indifendibili a chi in teatro ci lavora, come spiegarli all’ignara cittadinanza pagante? La mancanza di una chiara giustificazione concettuale – o, se preferite, di un’efficace narrazione – mette a rischio l’idea stessa che valga la pena impegnare risorse pubbliche a sostegno del teatro.
Tali risorse, come più in generale quelle destinate alla cultura, sono già molto scarse; le cifre – lo sappiamo e lo ripetiamo da tempo – ci collocano in fondo alle statistiche europee. Ma ciò non è bastato a governi e giunte eredi della sinistra storica (che proprio su una differenza culturale con la destra basano la propria identità, una volta smarrite l’ideologia e una fragile superiorità etica) per tentare un sostanziale rilancio degli investimenti. Si pensi dunque a che cosa potrebbe succedere nel caso non improbabile che la crisi economica si aggravi e prendano il potere esecutivi ancora più populisti e incompetenti di quello attuale. Non sarebbe certo sufficiente lamentarsi per i pochissimi soldi: i soldi sono sempre troppi, se non si riesce a raccontare credibilmente come e perché vengono spesi.
Io sosterrei volentieri un sistema con due o tre veri Teatri Nazionali, di cui lo Stato si assuma pienamente la responsabilità, con veri direttori artistici non soffocati nella definizione di una linea culturale da un delirio di parametri e quote. Per il resto, francamente, non sarebbe male vedere un po’ più di libera concorrenza e un po’ meno traffico di borderò fasulli e produzioni forzate. Spostare insomma i residui fondi disponibili dalle sovvenzioni dirette a forme di de-tassazione delle imprese e di sostegno al welfare e alla formazione dei lavoratori; cercando di aiutare molte valide compagnie a uscire dal lavoro nero e dal semi-dilettantismo. Immagino che così, tra mille contraddizioni, si sprigionerebbe un po’ di vitalità da un ambiente da troppo tempo impaurito e ripiegato su se stesso. E di vitalità negli anni che ci attendono avremo più che mai bisogno.
Mi rendo conto che un’ipotesi del genere è un po’ rozza e irrealistica, perché andrebbe contro a troppi interessi costituiti. Chi ne capisce più di me la emendi o migliori. O proponga qualcos’altro, purché radicalmente diverso dall’attuale riforma. Questo doloso pasticcio burocratico non porterà nulla di buono, nemmeno a coloro i quali, tacitamente, sono convinti di trarne vantaggio.