Nella sua lunga esistenza, Ettore Capriolo ha eccelso come traduttore dall’inglese, drammaturgo, critico e studioso di teatro. Non amava apparire, sicché penso che non gliene fregherebbe nulla del rilievo inadeguato che i media hanno dato alla sua recente scomparsa. Il suo lascito è troppo importante per poter emergere in un notiziario, e sarà duraturo – per noi che l’abbiamo conosciuto e stimato, si tratta di un impegno. Qui vorrei solo appuntare la mia testimonianza sulle sue doti di insegnante.

Quando ho studiato recitazione alla Civica Scuola d’Arte Drammatica di Milano, tra il 1985 e il 1988, Ettore Capriolo ne era il docente più anziano e prestigioso. A noi aspiranti attori insegnava storia del teatro, per un’ora alla settimana; molto più tempo in aula dedicava ai nostri compagni del corso di regia. Le sue lezioni erano assai poco convenzionali. Non ci provava nemmeno, a farci studiare un qualche manuale di storia teatrale. Le sue riflessioni partivano sempre dallo spunto concreto di ciò che stavamo mettendo in scena sotto la guida di altri insegnanti, o dalla visione di spettacoli in cartellone a Milano. Il suo stile d’esposizione era dialettico, le sue conoscenze enciclopediche, formidabile la sua capacità di armonizzare in un solo discorso raffinate analisi critiche, giudizi apodittici, aneddoti variamente gustosi e veri e propri pettegolezzi. Del resto, quel conversatore instancabile e raffinato continuava a dispensare il suo sapere, a chi di noi lo volesse, fuori dalle mura della scuola (soprattutto al bar di corso Magenta, ma anche in altri bar, e nei foyer dei teatri che frequentava assiduamente, con passione più giovanile della nostra). Era sinceramente curioso sui nostri primi passi, ma mai paternalistico o benevolo per partito preso; e si imparava, col tempo, a riconoscere nella sua caratteristica ironia pungente una seconda pelle dell’affetto. Non temeva mai di esprimere il suo gusto con valutazioni nette riguardo alla qualità degli spettacoli, degli artisti allora in voga; spesso non ero d’accordo con lui, ma dalle esperienze successive ho compreso come quella sua mancanza di diplomazia, quel suo esporsi a prender posizione, fosse per noi un dono, tutt’altro che scontato, di libertà intellettuale.

Per molti allievi della Civica, di diverse generazioni, il rapporto con Ettore Capriolo è proseguito informalmente – e, com’è ovvio, con diversi gradi di confidenza – per anni e anni. In tanti gli siamo debitori di consigli, critiche, suggerimenti. Era un intellettuale nel senso alto e desueto del termine. Lavorava sulle relazioni, e qui non intendo le “pubbliche relazioni”. Collegava tra loro testi in apparenza lontani, autori a registi, registi ad attori, memoria storica a presente. Usava la sua influenza (che nell’ambiente teatrale è stata notevole) per dare opportunità ai giovani che stimava, anziché usare quei giovani per accrescere il proprio potere. Il suo amore per il teatro e per la letteratura era intenso, ma laico e disincantato, fondato sul piacere, per nulla infetto da supponenza e moralismo. Sapeva essere partigiano, ma anche rivedere i suoi giudizi; e verso coloro che sul piano culturale avversava mi è sempre parso tanto tagliente, quanto incapace di rancore.

Durante il suo ultimo anno di vita ho avuto la fortuna, grazie a una preziosa iniziativa di altri suoi allievi, di tornare a vedere spesso questo insegnante vero, che a dispetto di vecchiaia e malattia teneva accesa la fiamma di una vivacissima curiosità – per quello che ciascuno di noi aveva fatto o stava facendo (sulla scena, è chiaro), per i comuni amici o conoscenti del teatro passato e presente, per i programmi freschi di stampa delle varie sale, per le riviste, i volumi, i film che di volta in volta ognuno di noi gli portava… Non sono mancati, da parte sua, i consigli di lettura. Non sono mancati, fino all’ultimo o quasi, gli amichevoli sfottò. Sono grato a Ettore Capriolo per molti motivi, ma soprattutto per avermi reso evidente e tangibile come quello tra allievo e maestro sia il rapporto umano per eccellenza: un legame che non è mai a due, ma rimanda sempre a qualcos’altro, a una materia immateriale (per Ettore, il teatro), a un sapere che – oltre ogni separazione e per un tempo imprevedibile – non si dimentica, si trasforma e prosegue.