Progetta di girare il mondo e restare sempre ragazza. In realtà si vede benissimo che non è più una ragazza, è una giovane donna, ritenuta bella. Per via di questa opinione diffusa ha la possibilità, in effetti, di girare il mondo; o almeno quelle città del mondo in cui sono presenti agenzie fotografiche e sfilate di moda. Le piacciono le mappe delle città, si orienta con mappe di carta, non quelle virtuali sul telefonino, e le colleziona, perfino. È già stata in undici città non sue, per lavoro, brevemente, senza indugiare al di fuori di tragitti ben definiti, funzionali. Per la terza volta si trova nella nostra città, dunque la mappa che ha sulle ginocchia è un po’ sgualcita, perché è così che lei maneggia le mappe, con dita sottili ma non delicate, nervose, sgualcendole. Non si sente bella, nient’affatto. La collega, quasi amica, al suo fianco seduta nel tram, pure lei alta e straniera, lei sì che si sente bella, anche se dall’esterno nessuno nota tra le due differenze rilevanti. Entrambe ridono, per una battuta straniera che l’una ha bisbigliato all’altra, o l’altra all’una, in un orecchio. È una risata troppo acuta, che suona innaturale. Ma forse la battuta era buona davvero.

Una certa magrezza, preservare la magrezza le consente di girare il mondo e lei ci sta attenta, come tutte le sue colleghe, dunque chi l’ha vista sul tram sbocconcellare una mela intuisce che si tratta di gran parte della sua colazione. Indossa scarponcini alla moda volutamente slacciati, lunghe calze nere, una gonna colorata corta ma non troppo, una t-shirt di marca, una giacchetta che non ha l’aria di tener caldo più di tanto; però lei il freddo non lo patisce, quello intenso del suo paese l’ha, per così dire, forgiata. I lunghi capelli castano chiari non sono raccolti. È ovvio che si senta osservata. In effetti viene osservata molto di più rispetto all’utente medio del nostro servizio di trasporto pubblico: con desiderio, con invidia, con ammirazione, quasi mai con empatia. Ha imparato a farsi scivolare addosso gli sguardi, ci ha fatto l’abitudine, senza trarne piacere, professionalmente. Il problema è che non può ricambiarli senza essere in vario modo fraintesa e ciò le dà fastidio, perché in realtà le piace osservare. In linea di massima le piace la gente, o forse è soltanto curiosa.

Gli approcci maschili non sono poi così frequenti, c’è qualcosa di scoraggiante – pare – in quella sua, loro bellezza troppo universalmente riconosciuta come tale. Il più delle volte li respinge senza imbarazzo e con calma. Rare volte non li ha respinti. A quest’ora del giorno, su questo tram, sono altamente improbabili. Lei e la sua amica sanno dove andare, ci sono già state, in quello studio fotografico, un anno e due mesi fa, ricordano vagamente pure a quale fermata scendere. Sono più rilassate del solito, scherzano con umorismo ibrido, dato che provengono da due paesi diversi, entrambi lontani. La ragazza non più ragazza si sente abbastanza a suo agio da guardarsi intorno, da guardare senza timidezza, seppure non fissandole, le persone, e così nota un uomo maturo, nel senso di avente una certa età, sulla fila di sedili di fronte, un po’ spostato a destra; e lo nota per l’abbigliamento umile, pulito ma consunto, le mani da operaio, la voce forte e dall’accento peculiare, il comportamento inusuale nella nostra città, sui nostri mezzi pubblici, cioè sinceramente espansivo.

L’uomo sta parlando da qualche minuto, nella nostra lingua ma con un’inflessione che lo denuncia inequivocabilmente come straniero, a una signora formalmente vestita seduta al suo fianco. La signora quasi non risponde; è evidente che i due non si conoscono; ogni tanto annuisce o interviene con monosillabi. Anche qualcun altro ascolta, incuriosito, il vivace sebbene probabilmente sgrammaticato racconto dell’uomo. Le due modelle non capiscono che qualche parola sparsa; ma la più alta, quella coi capelli lunghi castano chiari, è così interessata da sporgersi d’istinto in direzione di chi parla. Lui coglie quello sguardo al volo e l’apostrofa cordialmente, come riconoscendo una vecchia amica. Cerca di coinvolgerla in quei discorsi; e appena si rende conto che, straniera pure lei, non capisce, subito passa a una lingua franca, declinata in modo ancora più strambo, escludendo di fatto dalla comunicazione i precedenti ascoltatori. Le chiede da dove viene. Le spiega da dove viene lui. Riprende da dove l’aveva lasciato prima un racconto che riguarda il suo paese d’origine anni fa, negli anni in cui ha lasciato il suo paese.

La giovane fatica ad afferare il filo della storia sospeso a mezz’aria, ma non si scoraggia, in qualche modo viene catturata, se non dal contenuto, dal tono della narrazione, diversamente dalla sua quasi amica, che volge lo sguardo di lato, in leggero imbarazzo, e non ride più. L’uomo ha molta voglia di parlare e il fatto che qualcuno lo ascolti lo rende all’apparenza allegro, intenso, intensamente cordiale. Ma col passare delle fermate si chiarisce che il suo argomento non è allegro; lei comprende senza equivoci che si sta parlando di una guerra. Di un conflitto nel paese dell’uomo, ora finito, forse, ma a cui lui ha partecipato, almeno marginalmente, prima di fuggire, o comunque andarsene qui da noi. Con ampi gesti, concitati, che compensano la povertà lessicale, rievoca un episodio cruento, che ha forse visto, forse vissuto. Si parla di un’esplosione, forse di una serie d’esplosioni, a ciò fa pensare l’apertura violenta improvvisa delle braccia, poi fatte ricadere lungo i fianchi, più volte. Di certo qualcuno aveva fame, nel racconto dell’uomo, perché la parola “fame” in lingua franca risuona distinta e lui la ripete. E c’erano file lunghe di gente in lunghissima attesa, non è chiaro di cosa. Protagonista del racconto è la morte; sebbene lui ometta numeri e sorvoli sui dettagli, non si può non percepire che è stato diretto testimone di una quantità di morti violente impensabile da sopportare per chiunque altro su questo tram – soprattutto se si pensa alla morte di persone care. Sono morte, o soltanto lontane, le persone a lui care? Oppure è riuscito a portarle fin qua, per così dire al sicuro? Appare in filigrana sul suo volto, mentre parla di sua madre, la faccia della madre, un’espressione materna inconfondibile; ma è viva o morta?

La madre della ragazza non è ancora morta, sta bene, il suo paese non è in guerra. È un po’ che lei non pensava ai suoi genitori, ora le viene da farlo, le riaffiora con impeto un ricordo d’infanzia. Un ricordo ordinario di festa in campagna, con http://www.renatogabrielli.it di drammatico nei contenuti, ma carico di violenta nostalgia e inquietudine mortale. Cerca di tornare a concentrarsi su quanto dice l’uomo, il che richiede impegno, dato il modo così diverso dal suo in cui distorce la lingua franca. Aggrotta la fronte, strizza un po’ gli occhi, annuisce lievemente per incoraggiarlo a continuare. Ciò che la affascina – supponiamo – nella sua narrazione è qualcosa di radicalmente primitivo e non giudicante, una felicità d’essere ancora in vita che lei non ha mai provato. Gli sorride. Lui allora tace, smette di parlare per la prima volta dopo un quarto d’ora, più o meno, come in attesa di una risposta. Le ha fatto una domanda? Lei sente che, a prescindere dalla domanda, vorrebbe raccontargli qualcosa di sé, ma non le vengono le parole, neppure nella propria lingua, esita, mormora un suono indistinto. Non si è accorta di come è volato il tempo, mutato lo spazio attorno. L’altra modella le assesta un colpetto di gomito su un fianco. Sì, è questa la fermata giusta. E non possono certo permettersi di arrivare in ritardo. Si alza, senza togliere gli occhi di dosso dall’uomo, ancora silenzioso, sul cui viso le pare di cogliere una delusione sconfinata. Si aprono le porte. Mentre si avvia all’uscita, lo saluta con cordialità esagerata, a voce alta e non sua, o per una volta veramente sua.

Durante il casting fotografico è distratta, ripensa all’incontro sul tram e quel pensiero, associato a emozioni indefinite e tra di loro contrastanti, riduce il suo controllo professionale sui muscoli facciali e sulla postura. Affiorano minuscole smorfie, piccoli scatti convulsi, bagliori di sincerità febbrile nello sguardo. Nessuno glielo dice, ma il provino va male, ne è sicura. Alla fine rifiuta un paio d’inviti per la serata e si congeda freddamente dalla sua quasi amica, per la quale si rende conto di non provare, di non avere mai provato alcuna simpatia. Ha bisogno di stare da sola e camminare, sicché si mette a camminare da sola per le vie della nostra città, senza davvero osservare la nostra città, assorta, senza meta. Di solito non fa così, non in una città straniera. Di solito si ferma a consultare la mappa cartacea a ogni isolato, o quasi. Ma stavolta non ha paura di perdersi, né d’altra parte lo desidera; è come se i quartieri che attraversa fossero mero sfondo. La stanchezza sopravviene dopo alcune ore, insieme al tramonto. Ha mangiato assai poco, come sempre, e camminato piuttosto rapidamente, oltre che a lungo, con passo rigido e ignorando le altrui occhiate. Ferma un taxi. Dice al tassista il nome del suo albergo.

Il mattino dopo si alza molto presto, avendo poco dormito. Anziché fare il check-out, come previsto, prolunga a proprie spese di una notte la sua permanenza. La perdita economica è notevole, non solo perché l’albergo è piuttosto caro, ma soprattutto perché così rinuncia a un volo già prenotato per il primo pomeriggio in direzione di un’altra città e di un’altra sessione di fotografie. Non saprebbe motivare con precisione un comportamento così irrazionale, che le sembra tuttavia inevitabile, privo di alternative. Non può, insomma, negarsi la possibilità di riprendere il discorso, di parlare ancora con l’uomo del tram. Mentre non dormiva, nel letto d’albergo, si è chiesta, tra le mille altre cose, se ne sia in qualche modo fisicamente attratta. Si è risposta di no. Non c’è http://www.renatogabrielli.it di erotico o romantico in ciò che prova per lui. Anche se per nessun fidanzato o amante ha mai compiuto simili sciocchezze. Mandare a monte un lavoro. Perdere il sonno. Calcolare l’ora esatta in cui è salita sul tram ieri, per riprenderlo esattamente alla stessa ora oggi, nella speranza che che egli compia abitualmente quel tragitto. Una speranza che presto si rivela infondata.

Scende dal tram ed entra in un modesto, odoroso locale di spaccio di hamburger. Senza pensarci su, dimenticando l’ora incongrua e consolidate abitudini dietetiche, ordina uno dei panini più strabordanti e spessi. Se lo gusta insieme a una birra. Dopo un paio di bocconi qualcosa dentro di lei si rilassa e le consente di ragionare. Non basta certo salire su un mezzo pubblico per vari giorni di seguito alla stessa ora, per ritrovare qualcuno che lì si è incontrato. Deve estendere il raggio della sua ricerca. Ma come, secondo quali criteri? Dal ricordo dei tratti somatici e dell’accento, deduce che l’uomo abbia una determinata nazionalità, e dunque faccia parte di una determinata comunità straniera. Non le resta che scoprire in quale zona tale comunità si concentri, per approfondire lì la sua indagine. Squilla il suo telefono portatile; ha squillato già più volte. E di nuovo lei non risponde, né lo farà per il resto della giornata, né per molte giornate a seguire. Chiamate di lavoro, chiamate di famiglia, chiamate d’amicizia, amore, sesso. In passato si è fatta sempre trovare pronta. Le piaceva essere e soprattutto sembrare una persona affidabile. Una persona su cui si può contare, moderatamente altruista, non barricata dentro alla sua bellezza. Ma oggi di ciò non si cura; anzi, trae una sorta di ipnotico piacere nel fissare sullo schermo l’immagine di chi via via la sta chiamando, finché il suono si esaurisce. Solo quando sono apparsi il nome e la foto di un uomo giovane e molto bello, con cui ha avuto mesi fa una breve relazione, non indugia e spegne lei di colpo.

Parla invece volentieri con persone in carne e ossa. Non si è sentita mai così disinvolta nell’approcciare le persone, per ricavarne informazioni. Capisce così in breve tempo in quale zona si concentri la comunità di stranieri che le interessa, e come arrivarci. È dalla parte opposta della città, nella periferia nord. Senza esitare vi si reca, cambiando tre mezzi pubblici e camminando parecchio, chiedendo spesso indicazioni, ogni volta storpiando le poche parole da lei conosciute nella nostra lingua, sottilmente euforica e determinata. Si è fatta ormai sera quando giunge a destinazione – ma quale destinazione? Tra le strade squallide e semibuie si aggirano in effetti figure dall’aspetto non dissimile da quello dell’uomo sul tram; si rende conto però che le chance di incontrare proprio lui restano molto basse. Eppure non si scoraggia, né si impaurisce per la netta predominanza maschile tra i passanti. È contenta anche solo del fatto di trovarsi in quel quartiere, le sembra di averlo desiderato da una vita. Entra in un grande bar visibilmente non pulito, che emana un odore acre, spesso, non invitante, percepibile fin sul lato opposto della strada. Ha l’intuizione, sbagliata, che l’uomo del tram possa esserne un frequentatore. Intanto ordina da bere e mangiare: alcool forte e cibo pesante. È l’unica donna. Indifferente all’avido stupore di chi la circonda. Un’irrealistica sensazione di sicurezza, tutta interiore, sembra farle da scudo. Finalmente un cretino le fa una avance piuttosto volgare. Gli risponde con ruvida disinvoltura; quello desiste sbalordito e nessuno più la importuna, finché riaccende il cellulare per chiamare un taxi. Rientra in albergo ancora totalmente, freddamente ubriaca.

Il mattino dopo porta nella stessa zona periferica il suo trolley da viaggiatrice frequente e la ripercorre in lungo e in largo, cercando una stanza in affitto abbordabile – data la relativa modestia dei risparmi accumulati nella giovane carriera – e piuttosto pulita. Paga tre mesi d’anticipo all’incredula padrona di casa, ma la sua idea è di fermarsi lì a tempo indeterminato – fino a che ritroverà l’uomo del tram, o finirà i soldi, o le affiorerà alla mente un desiderio diverso da quello negativo di non essere più, mai più come prima. Butta via i pochi bei vestiti che aveva stipato nel trolley; ne compra di nuovi, larghi, un po’ sformati, in un grande mercato all’aperto che ogni sabato riempie di folla una piazza vicino a casa. Spende i risparmi con giudizio, per vivere ha bisogno di poco. Oltre a girare e osservare la gente, impara la nostra lingua per come è parlata da altri stranieri, quelli della comunità di zona. Dai nostri pochi connazionali, soprattutto anziani, rimasti nel quartiere apprende  soprattutto espressioni proverbiali, parolacce e bestemmie. Cambia dieta, frequenta trattorie alla buona mangiando pesante. Ingrassa parecchio, si accorcia i capelli. Non ha voglia di lavorare, né saprebbe dove e come chiedere lavoro: immagina di non saper fare nulla e di ciò non si dispiace. Nelle prime settimane viene percepita come un tipo strano; poi, dato che alla stranezza ci si abitua come e più che alla cosiddetta normalità, finisce per non suscitare più interesse. Con qualche donna, a cominciare dalla padrona di casa, chiacchiera senza mai entrare in confidenza. Gli uomini, che colgono qualcosa d’inquietante nella sua sistematica rinuncia al fascino, si mantengono a distanza di sicurezza. Quello del tram, ormai l’ha quasi dimenticato.

Ma le sembra di ricordare, come fossero suoi, frammenti di vita d’una violenza insopportabile, raccontati da quell’uomo, forse, o da chiunque abbia vissuto in guerra. Le sembrano così reali quando emergono, quei ricordi altrui, le fanno così male che non resiste alla tentazione di richiamare al telefono l’unica persona della sua vita precedente con cui è rimasta in contatto. Ogni volta che si sentono, la madre cerca di convincerla a tornare a casa. Ogni volta lei cerca di spiegarle i motivi di quel bizzarro autoesilio, ma non ci riesce, non trova le parole, la sua lingua madre le suona straniera quasi come la nostra. Passano dei mesi. Benché li consumi per così dire con il contagocce, i suoi risparmi stanno finendo. Ogni due settimane va dal parrucchiere; è il suo unico lusso, le piace mantenere in ordine i capelli tagliati corti, fini, d’un castano chiaro. Chiude gli occhi, si fa manipolare la testa gradualmente sempre più vuota di pensieri, non parla, non ascolta, s’abbandona. Ma un sabato pomeriggio qualcosa, un’immagine la colpisce, una faccia, un corpo noti, alla periferia dello sguardo. In cima alla pila di riviste poggiata alla destra della sua poltrona, ecco una foto della sua amica, o quasi amica, o non amica, della ex collega che le stava accanto sul tram. Allunga la mano per afferrare la rivista. Non la sfoglia, si limita a fissare negli occhi, neutri, professionali, quell’immagine remota e fredda. Nemmeno muove la testa dentro il casco. Una piccola onda di violenza le scorre attraverso le braccia, fino alle mani. Strappa la rivista, che pure ha un certo spessore, in quattro parti uguali, che lascia cadere a terra. Si stupisce per la reazione indignata della parrucchiera, poi le risponde per le rime, urla, bestemmia con perfetta proprietà di nostro linguaggio, si ritrova in mezzo alla strada coi capelli bagnati e insaponati, preda di una rabbia senza nome, che non riesce a spiegare o giustificare davanti a se stessa, che può solo placare con razioni crescenti di cibo e alcool.

Comincia a fare piccoli debiti, a frequentare gente cosiddetta poco raccomandabile, a stare sveglia fino a notte fonda in compagnia presto dimenticata al mattino. Tutte abitudini abbastanza pericolose, delle cui conseguenze non si preoccupa affatto, e proprio questa mancanza di preoccupazione sembra, magicamente e precariamente, proteggerla. Scopre un’insospettabile affinità con certa fauna di strada, piccoli delinquenti stranieri ma anche e soprattutto nostrani, di cui apprende gergo e atteggiamenti con rapidità e precisione, come se fossero ricordi di una vita precedente. Ozia spesso nel grande bar di quartiere dov’era approdata la prima sera. È diventata amica di uno dei gestori, lo aiuta in traffici illegali di scarsa entità, ripianando così di volta in volta il passivo del conto sempre riaperto. Tutti sono impressionati da come regge l’alcool, è una qualità naturale che sente molto più  propria, rispetto alla passata bellezza. Intorno alle due del mattino il bar chiude e lei ripiega nella stanza, sua o di qualcuno degli avventori. Sono le ore più oscure, che scivolano nell’oblio man mano che vengono vissute, lungo un filo che vibra tra sonno e veglia, allucinazioni di guerra e incubi a sfondo sessuale in cui il suo corpo viene lentamente dilaniato.

Oggi però non torna cosciente nella sua stanza, o in quella di chiunque. È rimasta – non ricorda come e perché – distesa sul pavimento sporco di quel bar. Forse è proprio il disgusto per l’odore a farle trovare l’energia per alzarsi in piedi. Si sente ancora molto debole, barcolla un po’, si appoggia con una mano al bancone. Dall’altra parte c’è una donna alta, massiccia, dai corti capelli castani, a cui chiede un bicchiere d’acqua. Un bicchiere d’acqua, per favore. Nessuna risposta. Si gira del tutto per guardarla negli occhi, ripete la richiesta, quella muove le labbra ma non si sente una risposta, allora la insulta, col medesimo effetto. Chinano il capo assieme e ciò le dà l’impressione che lei e la donna dietro al bancone siano la stessa persona; del resto, in quella posizione c’è sempre stato un lungo specchio. La osserva meglio, incuriosita. Quant’è bianca e opaca la sua faccia, il collo s’è come ingrossato. E le occhiaie stanno già per diventare rughe.

Non sono più una ragazza.

Pensa, nella sua lingua straniera. O forse gliel’ha detto quell’altra, al di là del bancone. Le è parso proprio di udirla, quella frase, e le ha fatto piacere – non il contenuto, ma il suono; per la prima volta dopo molti mesi sente nostalgia per il suono della sua lingua. Perciò nemmeno mezz’ora dopo chiama sua madre e si fa pagare un biglietto d’aereo, per tornare a casa. Costa molto il biglietto d’aereo e i suoi genitori non sono ricchi, ma sono felici d’investirci i risparmi. Pure lei è felice di tornare a casa. Non saluta nessuno, non si fa più rivedere al bar, non risponde al telefono. Qualche mattina più avanti, la mattina del volo, rispolvera il trolley con cui era giunta tra noi, ci butta dentro pochi vestiti da quattro soldi e si avvia verso un autobus. Il suo cuore è leggero, il passo deciso, la mente vuota o quasi. Alla fermata due uomini di mezz’età, vestiti da lavoro manuale, stanno fumando. Uno dei due le guarda il didietro e pronuncia un commento a bassa voce. La donna li ignora, ma se si voltasse a osservarli noterebbe che l’altro uomo, quello che fuma in silenzio, è lo stesso conosciuto sul tram ormai un anno fa, lo stesso dei ricordi di guerra. Veri o inventati – chi può dirlo? A lei non interessa più, né lui li racconta, non ora. Senza smettere di fumare dà un’occhiata di sbieco a quella tizia biondiccia, straniera a lui come a noi, mentre col suo  trolley sale e si fa largo nell’autobus affollato e presto sparisce, già lontana dalla nostra città per sempre, e dalla sua età di ragazza.