Molto spesso, in Italia, chi propone soluzioni è parte del problema. Ma in questo non c’è nulla di grave. Grave è piuttosto non ammettere, o nemmeno accorgersi, di essere parte del problema. Prendiamo, per esempio, i giornali più diffusi della buona borghesia italiana: “Repubblica”, “Corriere della Sera”, “Sole 24 Ore”, “Stampa”. Io, da buon borghese, li leggo di frequente; e mi fa molto piacere trovarci denunce sempre più autorevoli e accorate dello stato in cui versa la nostra cultura (come in questi due brillanti articoli di Gian Antonio Stella e di Francesco Merlo), nonché proposte concrete per risalire la china, a partire dal manifesto promosso dal “Sole” (di cui ho già parlato qui). Tuttavia, trovo legittimo ricordare, non tanto ai quasi inappuntabili giornalisti, quanto ai loro direttori e – soprattutto – ai loro editori, che il modo in cui la cultura viene da anni trattata sulle pagine dei grandi quotidiani ha senz’altro contribuito al suo degrado.
Per abitudine o compulsione, leggo fin troppo spesso le cronache teatrali; dunque partirò da questo punto dolente. Lo spazio dedicato alle recensioni, o comunque all’approfondimento critico, si è inesorabilmente ridotto ovunque – perfino sull’unico supplemento culturale di livello europeo, il domenicale del “Sole”. Abbondano invece, in particolare nelle pagine nazionali sugli spettacoli di “Corriere” e “Repubblica”, segnalazioni semi-promozionali e interviste relative all’andata in scena di figure famose per meriti cinematografici o televisivi. Perché si parli diffusamente e davvero di teatro, sono necessari gli scandali; il più recente, quello sull’abbozzata censura a un’opera di Romeo Castellucci. A confronto con i loro omologhi europei, i nostri quotidiani “seri” danno una rilevanza spropositata alla televisione di bassa qualità e al gossip, dimostrando disprezzo per il livello culturale dei propri lettori, o comunque facendo del proprio meglio per abbassarlo. Si assumano dunque la loro piccola parte di responsabilità per la deriva del sistema teatrale italiano, in cui ormai la maggioranza delle grandi produzioni vengono costruite, senza un chiaro progetto artistico, intorno a “nomi” della tivù.
Se facessero lo sforzo di dare più respiro alla critica teatrale (non solo nelle edizioni online, ma anche e soprattutto in quelle cartacee), i direttori dei quotidiani potrebbero al contempo rimediare a un altro annoso problema: la scarsa varietà di voci. Infatti i recensori teatrali sono pochi, e sempre gli stessi. Non si tratta di favorire a tutti i costi un ricambio generazionale, anche perché sul versante critico una lunga esperienza può rivestire grande valore; ma, insomma, sarebbe bene offrire una gamma un po’ più ampia di punti di vista. Gli uffici stampa dei teatri di tutt’Italia inseguono e corteggiano da lustri un pugno di esperti, sempre quelli – tutte degnissime persone, costrette a fare grandi sforzi di autocontrollo per non montarsi la testa. Sarebbe non solo giusto, ma umano concedere loro qualche turno di riposo.
Mi rendo conto che, essendo il teatro percepito purtroppo come marginale, queste mie osservazioni possono risultare quasi irrilevanti. Ma, a mio avviso, lascia a desiderare anche il modo in cui si trattano, nei quotidiani, quelle discipline artistiche cui viene dedicato molto più spazio. Il problema fondamentale risiede in una confusa sovrapposizione tra riflessione critica, informazione culturale e pubblicità: i giornali, in quanto parte di gruppi editoriali dagli interessi ramificati, promuovono i loro stessi prodotti senza soluzione di continuità con tutto il resto; e, viceversa, danno volentieri rilievo alle proposte di soggetti “forti”, con cui sviluppare relazioni di mutuo tornaconto economico. Non inseguo il mito dell’imparzialità giornalistica; mi piacerebbe però un po’ più di trasparenza. Per esempio, quelle coppie di paginoni o quegli inserti scritti su commissione per celebrare “grandi eventi”, “grandi mostre”, festival, ecc., sarebbero accettabili e persino decenti se vi si apponesse la classica piccola avvertenza “informazione pubblicitaria”.
Ecco, è proprio la perdita di confine tra informazione e pubblicità, poetica e auto-promozione, progetto culturale e marketing, il retaggio più nefasto di quest’ultimo ventennio. Un ventennio segnato non a caso dal protagonismo di un genio della réclame, il cui gigantesco conflitto d’interessi ha fatto ombra a una miriade di conflitti analoghi, sminuendoli, giustificandoli, consentendo insomma una sbornia collettiva di falsa coscienza da cui non ci siamo ancora ripresi. Ora, a quanto pare, il genio della réclame non è più protagonista; ma, per dimostrare che quel ventennio è finito davvero, ci vorrebbe anche una grande stampa più credibile, coerente e capace di autocritica.