Nel passaggio dal governo dissoluto a quello sobrio, sta cambiando qualcosa per il teatro italiano? Forse per un eccesso di pacata riservatezza, il ministro della cultura Ornaghi non ha rivelato granché sulle sue intenzioni. Non mi risulta che progredisca in parlamento la “legge-quadro” sul teatro, attesa da decenni, su cui pare si sia trovata tempo fa un’intesa bipartisan: una legge conservatrice, che fotografa lo status quo, ma che almeno garantirebbe al settore un minimo di dignità e facoltà di programmazione a medio termine. L’emorragia del FUS (Fondo Unico per lo Spettacolo) era stata provvisoriamente arrestata dal precedente ministro, Galan; ma i danni peggiori li hanno fatti le ricadute sulla spesa culturale dei drastici tagli agli enti locali, che hanno penalizzato soprattutto le compagnie e i teatri indipendenti, o comunque non ancora riconosciuti dal ministero.
Ancora più della riduzione di risorse pubbliche agli enti teatrali peserà, negli anni a venire, lo smantellamento delle già scarse tutele assicurative e previdenziali per i lavoratori dello spettacolo. Negli ultimi mesi abbiamo assistito all’abolizione del diritto al sussidio di disoccupazione per gli attori e per tutto il personale artistico; all’incorporazione dell’ENPALS da parte dell’INPS; alla soppressione del fondo di solidarietà della SIAE. Simili provvedimenti contribuiranno a rendere ancora più difficile ed esposto al fallimento il percorso professionale di gente che certo non ha scelto il teatro inseguendo il sogno di un posto fisso e di una perpetua vicinanza a mammà. Per portare all’attenzione dell’opinione pubblica questo problema, non ci sono solo legittime ragioni di autodifesa delle categorie (che, non adeguatamente rappresentate dai sindacati tradizionali, trovano voce in movimenti “dal basso”, anche molto diversi tra loro, come quello del Valle Occupato e il Centro Nazionale Drammaturgia Italiana Contemporanea); ciò che bisogna chiedere con molta chiarezza, pure a questo governo, è: vogliamo davvero che in un prossimo futuro l’accesso alle professioni artistiche sia esclusivo appannaggio dei rampolli di famiglie benestanti? Al di là di ogni antiquata preoccupazione di equità sociale, uno sviluppo del genere non sarebbe deleterio per la qualità della cultura del nostro paese?
Beninteso, già adesso gli ambienti del teatro, del cinema, della televisione, ecc., non pullulano di figli di operai. Ma, almeno per quel che posso testimoniare, c’è una certa varietà nella provenienza sociale di chi pratica i mestieri dello spettacolo – e ciò si riflette positivamente nella capacità degli artisti di mettersi in relazione con la realtà che li circonda. Non sarà più così, e in breve tempo, se andiamo avanti di questo passo. Il rischio di non raggiungere mai, o di perdere presto, una minima autonomia economica spingerà molti – li sta già spingendo – a rinunciare a una carriera artistica, o a ripiegare sul teatro come secondo lavoro, spesso gratuito. E non inganni la proliferazione di spettacoli di piccole dimensioni, in spazi “alternativi”. Come il self-publishing nel settore editoriale, l’auto-produzione teatrale ha costi relativamente abbordabili ma scarse chance di arrivare a un vero pubblico; le eccezioni fanno notizia, la regola è l’emarginazione dai circuiti sempre più ristretti in cui il lavoro viene retribuito. Si alimenta un’illusoria partecipazione, una sorta di dilettantismo di massa, per cui ciascuno si potrà sentire un po’ artista, nei ritagli di tempo, ma la possibilità di studiare seriamente, approfondire, dedicarsi pienamente a un lavoro creativo sarà riservata a chi è già ricco.
Non so se questa deriva culturale, che va di pari passo con l’inesorabile impoverimento della classe media, possa essere almeno rallentata. Comunque, date le sue caratteristiche illiberali e dannose per l’Italia, anche su questo la retorica liberale e patriottica di chi ci governa verrà messa alla prova.