Facciamo un’ipotesi – tanto, non costa nulla. Supponiamo che davvero l’attuale governo di larghe intese tenga moltissimo alla cultura, e che sul serio il presidente del consiglio sia disposto a dimettersi, piuttosto che acconsentire a nuovi tagli. Ma, già che ci siamo, spingiamoci un po’ più in là. Supponiamo che, profondamente toccato dagli appelli che si susseguono in rete, egli – il presidente – riesca, minacciando magari gesti di autolesionismo ancora più estremi, a ridare un po’ di soldi al FUS, il martoriato Fondo Unico per lo Spettacolo. Esageriamo. Ma sì. Immaginiamo che ridia un po’ di fiato agli enti locali, massacrati dal precedente governo di larghe intese, consentendo loro di tornare a sostenere, almeno marginalmente, la produzione teatrale sul territorio. Chiudiamo gli occhi e torniamo alla situazione di qualche anno fa, a “prima della crisi”. Bello? Tutto risolto? La mia impressione è che il problema principale, in questo passaggio, non sia la difficoltà economica, ma il modo in cui la stiamo affrontando.
La mancanza di soldi non ha finora generato coraggio e ricerca di soluzioni innovative, bensì un pauroso ripiegamento sul già noto. Nel sistema teatrale, le rendite di posizione si sono rafforzate; nessun passo in avanti è stato compiuto sul versante della trasparenza nella gestione del (poco) danaro pubblico; il lavoro artistico e la produzione indipendente sono diventati ancora più fragili, precari, esposti a ricatti. Il processo di assunzione del potere da parte di manager/politici è pienamente compiuto. Nei grandi teatri, le “direzioni artistiche” sono ormai di pura facciata, o quasi; nei casi migliori, hanno comunque un margine di manovra ridottissimo, soffocate come sono dalle annose esigenze di reciproco “scambio” e da quella di fare immediatamente cassa con successi garantiti. Si tratta di non-luoghi dall’identità labile, attraverso cui le compagnie transitano, portandosi dietro il proprio pubblico. Alcuni dei teatri stabili funzionano sul piano del marketing e della gestione della propria immagine, ma nessuno, a partire dagli artisti che ci lavorano, crede più nella loro funzione pubblica. Il lavoro gratuito o sottopagato dilaga ovunque. Gli adempimenti burocratici restano gravosi per tutti, insopportabili per le organizzazioni più piccole.
In un quadro del genere, agire sulla base del pensiero “siamo tutti sulla stessa barca” non è solidarietà: è connivenza con chi trae profitto dallo status quo. Non siamo tutti uguali, e la barca non è una sola. La “cultura”, per com’è descritta dalla retorica vigente, non esiste. Non esiste, in generale, il “teatro”. Ci sono forme di espressione artistica e riflessione critica che traggono forza e senso dalla loro reciproca differenza, dal conflitto, dalla nostra capacità di discernimento e scelta. L’unico grande e involontario merito di questo governo anfibio è di avere smascherato, per sempre, la ventennale finzione di un “noi” vagamente superiore sul piano etico e culturale, contrapposto al “loro” della barbarie berlusconiana. L’apparente contrapposizione all’odiato, volgare plutocrate ha a lungo consentito alla ex-sinistra storica, privata dell’ideologia, di serrare i ranghi proprio attraverso l’immaginario culturale, appiattendo le differenze e garantendo l’inamovibilità delle sue élite. Ci hanno fatto sentire noiosamente nel giusto praticando una sorta di ipnosi parolaia di massa, come in una trasmissione di Fabio Fazio interminabile, senza nemmeno il sollievo di qualche pausa pubblicitaria. Ma ora basta, è finita, compagni. Non ho più l’energia per fare finta di credervi.
Non c’è dunque, a mio avviso, una generica “cultura” da difendere, ma si può e deve difendere, attraverso scelte rigorose, la qualità del proprio lavoro. L’unica risposta praticabile e sensata alla crisi, sul piano individuale, è non prendere mai la crisi come scusa. Bisogna semmai pretendere di più, da se stessi e dagli altri. Combattere la negligenza e il dilettantismo, esprimere un gusto, saper dire dei no e motivarli. Sul piano collettivo, non assecondare più in alcun modo l’ipocrita “volemose bene” imperante, e chiedere a quel che resta delle istituzioni di assumersi delle responsabilità, premiando finalmente il merito e non solo l’anzianità di servizio. La chiusura di un teatro non è una tragedia – purché se ne apra uno nuovo. Una carriera artistica finisce anzitempo – perfetto, purché ne cominci un’altra. Nessuno ci ha obbligati a fare ‘sto mestiere. Bisogna garantire ai più giovani non un fasullo diritto all’espressione per tutti, bensì la prospettiva di competere per affermarsi anche duramente, ma ad armi pari. Altrimenti, qualche soldo in più dallo stato non servirà a nulla. Anzi. E’ fuori dalla palude dei privilegi, nel dinamismo dello scontro tra progetti e visioni, che può scoccare qualche scintilla d’arte viva. Siamo ancora in tempo. Si è in tempo sempre. In fondo, basta solo convincersi che il coraggio, alla lunga, paga.