Il suo progetto non è svuotarti il portafoglio, ma l’anima.

A questo scopo ti aspetta dove te l’aspetti, come davanti alla chiesa o all’angolo del supermercato o nel bel mezzo del vagone della metropolitana (e suona o canta o cantilena o si trascina su arti tronchi), oppure no. Da un’altra parte, imprevedibile – e non è detto che aspetti proprio te, o te soltanto.

Potrebbe ad esempio fare finta di aspettare qualcun altro.

In linea teorica, diciamo.

O di non aspettare nessuno.

Ma lui, o lei, lo sappiamo benissimo, aspetta sempre qualcuno. Te.

Consideriamo il suo berretto, dato che non puoi fare a meno di pensare al suo berretto, ne sei lievemente ossessionato, e con qualche ragione, siccome parecchie volte, circa due su tre, c’è di mezzo il suo berretto. Blu o nero o bianco panna sporco, di solito, ed estivo, leggero, dalla visiera lunga. Te lo porge, te lo allunga, se lo pone di lato o davanti, lo lascia penzolare stanco tra due dita mentre appoggia la schiena al muro nel tratto di via Nitti tra la tintoria e il negozio di biciclette, guardando altrove, ma sempre a tuo beneficio, per così dire, per te…

Il berretto, insomma, quel berretto. Chi porge il berretto è di carnagione scura, il che lo fa somigliare ad altri della sua razza, sia detto senza razzismo. Perché? – ti chiedi in modo lievemente ossessivo, senza ottenere altro che una reiterazione della domanda. Nel tempo, col ripercorrere al mattino la stessa strada, ti è venuto perfino il sospetto che non sia lo stesso individuo di carnagione scura a porgerti o farsi penzolare davanti il berretto, ma un altro come lui o lei – o forse è lui o lei che si traveste o impercettibilmente si trasforma?

Dov’è, com’è, chi è quel, quella mendicante quando non ti molesta, esplicitamente o con subdola noncuranza, tramite il suo berretto? Non potendo saperlo, non puoi che fare, non puoi non fare tormentose congetture. Sarà stato forse lo stesso, la stessa diventata bianca per l’occasione, troppo bianca, e con un neonato al collo invece del berretto, nel vicolo dietro la banca, quando te la sei vista emergere dalla penombra, faccia a faccia all’improvviso, ma con la faccia per un istante preceduta dall’odore primitivo e insinuante di povertà e d’infanzia? Te n’è rimasto ancora qualche granello nel naso, di quel fetore ricattatorio. Il mendicante ti ricatta sempre, è chiaro, sia detto senza correttezza politica, ma spingersi fino a diventare una donna, una donna con bambino, o bambina… Latte, piscio, sudore. Una puzza che ricatta e non si toglie dalle narici.

Allora cerchi di non pensarci e ti rechi in luoghi caratterizzati da forti odori piacevoli, come un ristorante orientale di alto profilo sotto i portici di via Marconi. Ci vai con tua moglie, o tuo marito, perché un marito o una moglie tu ce l’hai, per fortuna, e una casa, o persino due. Una situazione fortunata, ma anche meritata, perché ci vuole un po’ di fortuna per meritarsi le cose belle, e viceversa. E tu fortunatamente ti meriti tua moglie o tuo marito, e viceversa. Il rapporto si è un po’ allentato negli ultimi tempi, tempi lunghi, come accade per tutti o quasi i rapporti lunghi. Cosa di meglio, per stringere i bulloni del rapporto, per così dire, di una cena di coppia al ristorante orientale di alto profilo? E dunque vi vestite bene, separatamente, per stupirvi un minimo a vicenda, come ai tempi che nemmeno ricordate, e camminate a braccetto, piano, assaporando il contatto nella sua qualità inconsueta. Non potete sapere cosa, chi vi aspetta sulla strada, a pochi passi da quel paradiso di profumi, sapori, rinnovati sguardi. O meglio: potreste saperlo, immaginarlo, ma le vostre menti sono distratte dalla magia sospesa degli avambracci intrecciati.

È sempre lui, o forse lei, ma in questo caso direi lui, che, steso sul marciapiede sotto il portico all’altezza del bar/latteria da Rossella, grasso, ronfante, ti tende un agguato involontario. Inciampando nel grottesco fagotto che gli funge da armadio, quasi finisci disteso in avanti, a faccia in giù. Il tuo consorte ti trattiene e sorregge, ma l’incanto è rotto, l’aura di fetore e degrado in cui per fatale distrazione siete penetrati vi rovina la serata. Irrevocabilmente. Basta un cenno d’intesa (quell’intesa che tra voi non è mai mancata ed è indispensabile, se non per la vita, per la sopravvivenza) e fate marcia indietro, inseguiti dal rantolo analfabeta del mendicante che, essendosi svegliato, ne approfitta per implorare o rampognare. Tornando a casa, non vi toccate più. Avete perso ogni appetito. Questa sera vi farete andar bene una tisana.

Di notte, dopo un’esperienza così, non riesci a dormire. E come potresti?

Ripensi, o pensi per la prima volta a te stessa, a te stesso, e ciò ti spinge ai margini del letto, lontano dal corpo di chi lo condivide, poi fuori dal conforto della camera, in sala da pranzo o in cucina, su una sedia, con la testa tra le mani. Troppe immagini attraversano la testa perché tu possa anche solo sperare di prendere sonno. Immagini della tua vita vista da fuori, come un brutto film già finito, ma che si proietta ancora e poi ancora, si ripete insieme alla tua condanna ad assistervi. Nulla può essere cambiato, come se tu fossi saldamente nelle mani della morte, ma cosciente in pieno, respirando. Perfino un incubo, in queste circostanze, ti sarebbe di sollievo. Oppure sapere almeno – poter attribuire a qualcuno la colpa di una tale ingiusta sofferenza.

Per esempio, a quel mendicante.

Cosa c’entra, il mendicante? Razionalmente, logicamente non lo sapresti spiegare, ma in qualche maniera c’entra, sottopelle lo senti, non può essere un caso che proprio stanotte, dopo l’incidente sotto i portici… Proprio tu, che hai sempre dormito il sonno roccioso del giusto… No, non può essere un caso. Tra le tempie premute, scariche improvvise di lucidità febbrile ti rendono chiaro quel che dovresti aver capito fin dall’inizio, anni, decenni fa, cioè che non si mira al tuo portafoglio, bensì alla tua anima. E in effetti ti senti l’anima risucchiata fuori, in questo assaggio notturno di morte in vita: un’anima a cui non avevi mai fatto caso, ma ora ti accorgi di averla avuta, adesso che è lontana, rubata da lei o lui – il mendicante.

La tua rabbia è più che legittima, e cresce insieme al giustificato senso d’impotenza. Non sai come difenderti, come nasconderti, come sfuggirgli o sfuggirle, data la sua diabolica capacità di travestirsi o mimetizzarsi. Allora, fantasticando sempre di più man mano che t’inoltri nell’insonnia, immagini gesti estremi, azioni non da te, di cui ti pentiresti – e in effetti ti pentirai di averle anche solo pensate. Certo, l’eliminazione fisica del nemico questuante, sotto qualunque forma si presenti la prossima volta, sarebbe una soluzione, forse l’unica, perché in un colpo li liquideresti tutti e saresti sicuro, sicura che ti tornerebbe l’anima: sì, ma in quale stato? No, non è da te l’ammazzare. Respiri a fondo, ti stropicci il volto, s’è fatta mattina. Provi a iniziare la nuova giornata con un pensiero positivo. Ti auguri di cuore di non incontrarlo più, che sparisca dalla tua vita per sempre, il mendicante, ma non perché morto in circostanze misteriose e sospette, atrocemente. Quanto sarebbe bello sapere che lei, o lui, se ne sta tranquilla e distante a casa sua, in una casa bella quasi come la tua.

E in effetti…

Intercettati da divinità beffarde, certi desideri si avverano, con modalità miracolose e paradossali.

In effetti, il pensiero positivo sembra funzionare. Ti lavi e vesti in fretta, ingolli mezzo caffè, cerchi di trasformare l’agitazione sonnolenta in dinamismo. Sulla soglia baci il consorte, velocemente ma sulla bocca. Riprendi un ritmo, ti affidi alla normalità rassicurante del ritmo mattutino, meccanico, delle solite azioni. Dunque esci per andare al lavoro, camminando fino al metrò lungo il percorso che incrocia viale Nitti e ti aspetti il mendicante all’angolo Nitti – Europa, vuoi che non ci sia ma te l’aspetti – ed ecco, non c’è.

Non c’è, in nessuna forma, di nessun sesso. Per lo stupore rallenti, quasi ti blocchi, ma non vuoi dare nell’occhio, allora prosegui, aspettandoti che di certo sia piazzato a due passi dall’edicola di piazza Fonte, però nemmeno lì c’è. Dove sarà finito? – ti domandi, con una punta d’ansia nuova, perché non ci puoi credere, che sia scomparso sul serio. Cominci a sospettare che si sia mescolato alla folla che cammina nella tua stessa direzione, verso la fermata della metro. Scruti a destra e sinistra, inquieto. Niente, nessuno, solo gente come te, per così dire normale. Ma non puoi escludere che in questa mattina così diversa dalle altre, e in apparenza così uguale, stia avvenendo un salto di qualità, sofisticato e surreale, nella tattica d’accattonaggio: che lui, lei si sia travestita da persona normale. Ma perché? Non ha senso. Cerchi di non pensarci. Poi, scendendo le scale della fermata della metropolitana, torni a pensarci. Intorno a te, a pensarci bene, c’è parecchia gente che non ti convince affatto. Forse non sono davvero normali. Può darsi che nascondano qualcosa, qualcuno d’imprevisto, sotto quella bella giacca alla moda, sotto quell’impermeabile immacolato. Probabilmente lì sotto, da qualche parte, c’è povertà, puzza, contagio, il tremito di una richiesta d’aiuto imminente.

Ma tu – per dirla senza  benigna ipocrisia – non ne puoi più di richieste d’aiuto. Hai già dato: non soldi ma occhio, orecchio, attesa, pensieri a frammenti, pezzi d’anima, la tua anima a pezzi. Non ci cascherai, in quest’ultima trappola, in quest’inganno contorto ed estremo. Pur di non sbagliare, non avrai più pietà, o anche solo attenzione, per nessuno.

Ed ecco che il tizio alto e un po’ curvo seduto di fronte a te, che stai in piedi, nella carrozza piuttosto affollata della metropolitana, solleva lo sguardo dallo smartphone… Perché? Vuole qualcosa? Da te? In un codice silenzioso che starebbe a te decifrare? Nel dubbio ti chiudi in te stesso di più, per così dire a doppia mandata, serri le labbra, ti stringi nelle spalle, fissi gli occhi nello squallore del soffitto illuminato a neon. In compenso l’avversità ti ha reso tanto scaltro da non pensare più che il mendicante si travisi, banalmente, da mendicante. Non credi, per esempio, al tizio mutilato che si trascina sul pavimento lercio della vettura, alla cantante gitana stonata che amplifica con una cassa portatile il suo strazio musicale. Non è lui, non è lei.

Chi, allora? Dove?

Sulla strada per l’ufficio (dato che, sia detto senza troppe certezze, hai ancora un ufficio, ben arredato) segui o precedi o t’affiancano sfioradoti o ti vengono incontro decine d’insospettabili inquietanti – troppi. Troppe informazioni ambigue intasano il tuo apparato sensoriale eccitato ed estenuato dall’insonnia. Tra l’uscita del metrò e la grande vetrata con porte scorrevole a pianoterra acceleri a scatti e scarti, occhi al marciapiede, fin quasi alla corsa. Ti senti in salvo per qualche respiro. Ti dirigi verso gli ascensori. Ti giunge, come ovattato, il suono del tuo cognome. A sinistra, dalla reception, il portiere, che conosci bene, alla reception da dodici anni e due mesi, ti richiama col movimento di un braccio. Scarti di lato e lo raggiungi. Ti porge una busta formato A4 e nel fatto in sé parrebbe non esserci nulla di strano – sono anni e anni che ti allunga pacchi o buste, di svariate dimensioni. Il problema non è certo la busta, ma il come te la porge. C’è una falsa umiltà che non riconosci, mai vista in Oreste, nell’inclinazione obliqua, viscida, del collo, del gomito, del polso che regge la busta: ogni articolazione tra le ossa di quell’uomo un tempo fin troppo compatto pare farti un inchino. E gli occhi. Non avevi mai notato che i suoi occhi fossero tanto acquosi e spalancati all’interno su un dolore. La busta penzola a novanta gradi, quasi fosse un berretto. Uno di quei berretti.

Cosa ti sta chiedendo Oreste, cosa vuole da te?

E chi è Oreste, davvero?

È molto tempo, troppo secondo gli standard aziendali, che stai lì impalato davanti a lui, che non prendi la maledetta busta. Ma è un tempo sufficiente per capire fin dove e dentro a chi si è insinuato il tuo avversario, contro le cui manovre senti che ti stanno per mancare le forze. Senti che potrebbe essere il momento della resa. Del tentativo (comunque inutile, comunque impotente) di levartelo dai piedi dandogli dei soldi. Non hai mai fatto la carità, non per scelta ma perché troppo impegnato a farti domande. Stavolta, però, con mano tremante, estrai da una tasca posteriore dei calzoni il portafoglio. L’Oreste-non-Oreste ti guarda stupito. Com’è bravo a fingere stupore!

Non sai come comportarti.

Il portafoglio ti cade per terra. Non lo raccogli; neppure lui lo raccoglie, come bloccato nel fermo immagine della sua innocenza artefatta. Giri sui tacchi e scappi, con impeto disperato e giovanile, come ringiovanendo per la disperazione, senza mai voltarti indietro: non hai mai corso così veloce in vita tua.

È passato del tempo, oggettivamente non molto, ma ti sembra una vita e la vita non ti sembra più tua. Ti ritrovi a casa ad aspettare tua moglie, o tuo marito. Conti sul ricordo vago, remoto di un conforto di coppia, della coppia come legame di conforto, e a cosa serve, se no? – ti chiedi. Stare in coppia. Non ti rispondi, ma speri. E quando, per un istante, smetti di pensarci, lui o lei, diciamo lei, è già lì, forse era a casa già da un pezzo.

Da quand’è che sei qui?

Vorresti chiederle, ma ti rendi conto che la domanda suonerebbe strana; invece protendi le dita fino a sfiorarle una guancia, poi il collo, per sentire se è la sua, quella di sempre, quella che ti ha fatto innamorare, la morbida consistenza della pelle – sì. Sì, pure la dolce piega delle occhiaie, la peluria trasparente sopra il labbro, la bocca sovente semichiusa, il suono intermittente e leggero del respiro – è tutto suo.

Un’imitazione perfetta!

Pensi – poi ti chiedi perché l’hai pensato. Se l’hai pensato, ci dev’essere un motivo, che ha a che vedere con una sensazione inequivocabile, anzi con la certezza sottopelle che, malgrado una somiglianza fisica che si spinge fino ai minimi dettagli, questa non è tua moglie. Non la riconosci. Cioè: riconosci tutto del corpo, della voce, ma qualcosa d’indefinibile, da dentro, è stato espropriato. Manca. E’ diventato altro.

E allora –

Cosa vuole da te, diciamo tua moglie (ma potrebbe essere tuo marito)? Perché ti accarezza il volto, ti chiede cosa c’è che non va, come se non sapesse perfettamente che è lei che non va? Le sue carezze, i suoi sospiri, come rimbocca le lenzuola, come t’aggiusta il colletto, come si siede accanto a te, coscia contro coscia, sul divano: ogni suo piccolo gesto lo scomponi, rallenti, analizzi, ci scopri dentro il respiro buio di una domanda illimitata.

Cosa vuole, cosa, da te?

Non riesci più a nascondere la rabbia e il terrore.

Con una spinta brutale l’allontani.

Stai urlando, non riesci a smettere di urlare.

Le rivolgi (non a lei! al mendìco!) parole tremende e irrevocabili, definitive.

Si chiude a chiave in camera da letto, piangendo. Per la prima volta nella storia del vostro matrimonio (non più vostro! non più lei!) dormirete separati. A te tocca sdraiarti sul divano, ma la scomodità non ti dispiace. Almeno adesso è tutto chiaro. Non appena allunghi le gambe, rilassando la nuca su un morbido bracciolo, ecco la spasmodica tensione di questi ultimi giorni d’un colpo ti abbandona, ti s’abbassano le palpebre come un sipario polveroso e sei già dall’altra parte, nel mondo reale dei sogni.

Nello specchio reale di un sogno che si interpreta da solo vedi come tua la faccia grassa, tuoi i capelli ricci e sporchi dello zingaro ubriaco che s’apposta di frequente davanti all’ingresso del grande supermercato di viale Pannonia; ma il petto – quando scendi con lo sguardo lungo la tua immagine riflessa – il petto non è dello zingaro, è più gonfio, di donna, fragile, esposto, ferito.

Attraverso lo specchio cerchi di venderti un fiore, con insistenza molesta te lo porgi nel vuoto – cadrà lentamente nel tuo buio senza fondo.

Ce li hai venti centesimi?

Cinque? Due?

Per il latte. Per un pezzo di pane. L’ultima immagine è quella di un bambino e se volessi descriverla (ma non vuoi) ti mancherebbero le parole.

Ti risvegli con la violenza di un infarto imminente, ti sei già alzato dal divano, premi entrambe le mani contro il cuore, è il tuo cuore, sbattendo le caviglie contro ostacoli domestici ti precipiti in bagno a controllarti la faccia, nello specchio del bagno c’è la tua faccia, quella di prima, senza falsa modestia ancora presentabile, insomma.

Respiri a fondo. Il battito del cuore rallenta. La tua faccia è ancora lì, nello specchio del bagno. Ma l’odore –

Lo respiri –

Quell’odore d’infanzia e di bisogno del mendìco ti è rimasto addosso e http:\\/\\/renatogabrielli.ita, da oggi all’ultimo dei tuoi puliti giorni, te ne potrà liberare.