Se il cosiddetto Bonus Cultura – elargizione governativa ai diciottenni di 500 euro da spendere una tantum in libri, spettacoli, mostre eccetera – fosse solamente una mancia elettorale, non metterebbe conto parlarne. Ma si tratta anche di una misura simbolica, inserita, tanto per cambiare, dentro a una narrazione; e mi pare sintomo di una visione del termine “cultura” quantomeno discutibile.

Aleatorio (nel suo escludere, per esempio, i diciannovenni), iniquo (perché offerto anche ai giovani benestanti) e stolidamente paternalistico (non contemplando per i neo-cittadini votanti la libera scelta di spendere i soldi in altro modo), il Bonus però, accidenti, si fa notare. Un altro provvedimento più banalmente sensato, come dare un po’ d’ossigeno alle disastrate biblioteche pubbliche, non darebbe alcuna propulsione al racconto. Quale racconto? Qui si narra – ricorderete quei giorni – né più né meno che la reazione dello Stato italiano agli attacchi terroristici a Parigi. È allora che qualcuno viene folgorato dall’idea del Bonus, mentre il Presidente del Consiglio ripete in varie sedi un nuovo, interessante slogan: “per ogni euro alla sicurezza, un euro alla cultura”. Oppure, con un’affascinante promessa di precisione: “per ogni centesimo alla sicurezza, un centesimo alla cultura”. Concetto davvero rivoluzionario, se applicato all’intero bilancio statale. Ma ovviamente riguarda soltanto due piccoli bonus paralleli; quello per la sicurezza consiste in 80 euro mensili alle forze dell’ordine. Ma perché è così importante, sia pure con espedienti drammaturgici a basso costo, rimettere la cultura al centro del discorso pubblico? E soprattutto: che cos’è ‘sta cultura?

Spesso abbinata al termine “identità”, secondo questa narrazione la cultura è in primo luogo ciò che ci distingue dai terroristi che ci attaccano; copre il variegato e piacevole campo dei cosiddetti consumi culturali; s’intreccia ministerialmente con il turismo e commercialmente con la ristorazione; nutre il vago culto di un’idea a-storica e astratta di bellezza. Passano in secondo piano o decisamente sullo sfondo il conflitto tra estetiche contrastanti, il pluralismo, il dubbio, il dissenso, l’autonomia intellettuale. Viviamo in una zona del mondo ancora esente da forme brutali e dirette di censura; ma in cui gli spazi di libertà vengono sempre più erosi da una classe dirigente riformista a parole, che di fatto prepara il terreno alla peggiore reazione.

In Italia stiamo assistendo alla fase terminale accelerata di un processo di concentrazione in poche mani del potere in ambito televisivo, cinematografico, teatrale, editoriale. E poco importa che quelle mani siano pubbliche o private, giacché nella gestione pubblica degli enti culturali dilagano gli interessi privati, in quella privata le compromissioni politiche. Questo fenomeno non appare adeguatamente controbilanciato dal moltiplicarsi di chance auto-produttive e di espressione individuale favorite da Internet: il semi-dilettantismo di massa alimenta e giustifica un sistema professionistico sempre più chiuso e oligarchico.

Noi teatranti abbiamo molto scritto e parlato in modo piuttosto autoreferenziale della riforma per decreto che ha di recente colpito il nostro settore. Ma è solo inserendola in un contesto più ampio che emerge la limpida coerenza dei suoi intenti illiberali. Il governo aumenta il proprio controllo sulla RAI con una legge autoritaria che solleva solo qualche timida reazione sindacale. La fu-sinistra al potere non alza un dito contro il monopolio editoriale Mondadori/Rizzoli; come del resto http:\\/\\/renatogabrielli.ita fa né ha fatto, malgrado reiterate e vuote promesse, riguardo a conflitti d’interesse e monopoli nel settore cinetelevisivo. Il teatro è certo marginale, ma non può sfuggire a questa logica. Perciò due governi guidati dal PD – partito di riferimento per larga parte dei vertici del teatro sovvenzionato italiano – hanno partorito una riforma che soffoca le produzioni autonome, costringe diversi teatri ad accorpamenti innaturali, aumenta il potere dei soliti pochi, moltiplica  l’offerta di formazione in un periodo di contrazione del mercato del lavoro, accorcia le briglie del controllo politico attraverso il ricatto delle sue stesse assurde imposizioni burocratiche.

Mi fa una certa impressione lo spettacolo di un capo di governo che ama il teatro, sostiene che c’è bisogno di “più teatri” per contrastare il terrorismo e tiene importanti discorsi politici in teatri sovvenzionati come il Piccolo e la Pergola – da cui starebbe lontano, o in cui entrerebbe solo come spettatore, se ne amasse la libertà. Ma la simpatica sfacciataggine del cosiddetto renzismo, con il suo sentore di Signoria senza Rinascimento, è utile a ricordarmi che c’è teatro e teatro: non c’è alcun bisogno di difendere quello che rielabora e diffonde narrazioni funzionali al potere. Si difende benissimo da sé.

Lo stesso vale, più in generale, per ciò che chiamiamo “cultura”. A mio avviso, nulla  di buono deriva dall’accettare la retorica che la vuole ecumenica e pacificante. Quella che m’interessa è terreno di conflitto, scardinamento delle visioni, lucidità critica. Ed è la sua libertà che va quotidianamente protetta, senza temere l’ancora-peggio che potrebbe arrivare domani, dall’ammorbante ipocrisia dei parassiti del meno-peggio.