Senza voler fare polemica, prendo spunto da due recenti polemiche giornalistiche per ritornare, ancora una volta, sul tema della trasparenza. I giornali si sono occupati con un certo risalto di stipendi e benefit dispensati da due colossi della cultura italiana, entrambi in grave crisi economica: la Scala di Milano e la S.I.A.E. Sul milione di euro che guadagnerebbe il direttore della Scala Stéphane Lissner (e sul dubbio se effettivamente l’abbia “autoridotto”) si può leggere qualcosa per esempio qui , o quiQuesto è invece l’articolo di Sergio Rizzo sui 64.000 euro annuali, con indennità di penna e lavanderia, che toccherebbero (in media) ai dipendenti della S.I.A.E., a quanto pare imparentati tra di loro in percentuali paragonabili solo a quelle di chi abita in certi remoti villaggi di montagna. Chi vuole legga e si faccia un’idea. Ma io non perderei tempo a indignarmi. Anzi – benché appaiano un po’ tardive – mi compiaccio per simili opere di trasparenza, e mi auguro che l’abitudine alla pubblicazione dei bilanci, con dettaglio sugli emolumenti, si diffonda a macchia d’olio tra tutti gli enti culturali finanziati con danaro pubblico. Trovo che ciò sia urgente, non per motivi morali, ma per puro e semplice pragmatismo.

Nel settore dello spettacolo siamo in tanti a lavorare gratis o sottopagati, non solo per autoproduzioni o produzioni indipendenti, ma anche a sostegno di autorevoli teatri pubblici; lo facciamo singolarmente come professionisti o, se abbiamo una compagnia, teniamo vive le stagioni degli spazi sovvenzionati coi nostri spettacoli venduti in saldo. D’altra parte, molti enti di chiara fama e prestigio sono veramente in difficoltà, a rischio di venire sommersi dai debiti. Nessuno può prevedere gli esiti della crisi in corso, ma appare altamente probabile che dovremo sforzarci – tutti, e per lungo tempo – di fare buon teatro con sempre meno risorse. E dunque? E dunque, perché il sistema in qualche modo regga, c’è bisogno che circoli più fiducia.

Su quali basi si accetta o si rifiuta una proposta di lavoro gratuito o semi-gratuito? Il più delle volte, si decide per fattori soggettivi, magari perfino umorali: interesse per il progetto, vanità, desiderio di auto-promozione, stima per altre persone coinvolte; o viceversa modesto interesse, presenza d’altri impegni, rabbia. Alle valutazioni manca quasi sempre un elemento oggettivo, importante: la reale conoscenza delle condizioni economiche in cui versa chi avanza la proposta. Io sento il desiderio di sapere quanto guadagna – o comunque quale uso sta facendo e in passato ha fatto di risorse pubbliche – chi mi chiede di regalargli il mio lavoro. E’ tanto strano? A me pare un desiderio sano, tanto più che non maschera intenti di rivalsa o vendetta. Non m’interessa reclamare tagli contro questo o quello; voglio solo sapere con chi ho a che fare, perché l’arte è lunga, ma la vita è breve e va passata in buona compagnia.

La questione della trasparenza mi sta a cuore anche come insegnante di teatro. Non esiste una pedagogia artistica che operi in astratto. E dunque non si può, nelle condizioni attuali, non tornare a porsi la domanda: “Per che tipo di teatro, e con quali prospettive professionali, prepariamo queste persone?” Garantire la trasmissione dei saperi resterà nei prossimi anni un compito difficilissimo e fondamentale; soprattutto nel malaugurato caso in cui crollasse il sistema del teatro pubblico, facendo dilagare un semi-dilettantismo di massa. Però il problema, adesso, è la confusione: che sia per la Serie A o per la Promozione, non ha senso preparare una squadra temendo che il torneo sia già truccato. Nella selva di bandi più o meno o molto meno seri, concorsi a puntate, provini pilotati e prove gratuite mascherate da laboratori, un giovane alle prime armi potrebbe legittimamente sospettare di essere oggetto di una colossale presa in giro. Non è del tutto vero, perché c’è anche chi opera correttamente; ma, nell’opacità generale, è difficile distinguerlo dagli altri. Certo, bisogna fare molto, e in fretta, per restituire un po’ di credibilità a un ambiente intriso di falsa coscienza, la cui classe dirigente aderisce al suo piccolo potere con la stessa pervicacia dei politici che finge di avversare: una “terza età del teatro” (come la definisce in un suo post Andrea Porcheddu) che non finisce mai di riempirsi la bocca con parole su gioventù e rinnovamento. Tenetevi il potere – verrebbe da dire sommessamente a questi signori – ma abbassate  il tono della retorica. L’ipocrisia è un lusso che non possiamo più permetterci.

In un intervento di qualche tempo fa, suggerivo alla semi-nuova amministrazione comunale di Milano di indurre i teatri da lei sovvenzionati a una totale pubblicità dei bilanci. Suggerimento errato, quanto al suo destinatario; e non solo perché il Comune ha cose più serie da fare (per esempio, questa) che ascoltarmi. Sono i teatri stessi che dovrebbero prendere una simile iniziativa di trasparenza, nel proprio interesse; altrimenti, ad affrontare la prossima ondata di tagli (magari ancora grottescamente mascherati con termini inglesi: dopo la spending review, ci aspetta il cutting show, o forse un dinamico flash rob?), si ritroveranno indifesi e soli. E’ il caso di mettere tutte le carte sul tavolo, prima che perfino il tavolo sparisca.