Nell’ultimo numero di “Hystrio” (4/2016) c’è un ricco dossier sulle lingue del teatro, a cura di Claudia Cannella e Sara Chiappori.

Sono tra gli autori interpellati con la domanda: “Esiste una lingua del italiana del teatro o esistono tante lingue diverse?”

Riporto qui sotto la mia risposta.

Malgrado la forte spinta all’omologazione da parte di M & M (Mercato & Ministero), la drammaturgia italiana contemporanea presenta ancora uno spiccato pluralismo sui piani di lingua, registro e stile. Ciò deriva – credo – dalla necessità per autori e compagnie d’elaborare soluzioni originali, sebbene effimere, al noto problema storico della debolezza dell’italiano come lingua per la scena. Ci si ritrova così a costruire degli idiomi bastardi e vitali, attingendo non solo a dialetti, ma a lingue straniere, gerghi sub-culturali, codici appartenenti ai media elettronici, mescolando alto e basso, registri letterari e legati alla quotidianità. La scrittura teatrale che trovo più interessante è difficile da tradurre in altre lingue e trasporre in forma narrativa o cinematografica. Amo scoprire negli spettacoli cui assisto una poetica irriducibile; un punto di vista specificamente teatrale sulla realtà. Non mi basta una storia “raccontata bene”, che si potrebbe raccontare più o meno allo stesso modo sulla pagina o sullo schermo. Non perché non mi piacciano le storie; d’altronde, nei miei stessi testi l’elemento narrativo è sempre presente. Ma l’enfasi che negli ultimi anni si pone su questo aspetto mi dà la nausea. È nel come si racconta, rappresenta, evoca o evita una storia che acquista senso fare teatro e si esercita la nostra libertà. La molteplicità di approcci, anche eccentrici, al problema della lingua mi pare dunque sintomo e garanzia di libertà intellettuale. Penso che il giorno in cui dovessimo constatare l’esistenza di una sola lingua italiana del teatro non sarebbe un buon giorno. Perché sarebbe probabilmente la lingua dello storytelling di regime. Il regime, già oggi soffocante, dello storytelling.