Oggi terminano al Teatro Out Off le repliche di La donna che legge. Vorrei ringraziare pubblicamente il regista Lorenzo Loris e gli attori Alessia Giangiuliani, Cinzia Spanò e Massimiliano Speziani per il loro lavoro appassionato, generoso e competente sul mio testo. Ringrazio tutto l’Out Off per il sostegno che ha dato, in un periodo non facile, a un esperimento drammaturgico impegnativo e dagli esiti tutt’altro che scontati. Vorrei anche rassicurare il critico Renato Palazzi, che nella sua recensione per Delteatro ha scritto che siamo andati in scena “davanti a platee ormai costantemente e irreparabilmente semivuote”. Per fortuna, o forse per nostro merito, il pubblico è molto aumentato dopo il semivuoto mercoledì della replica cui ha assistito. Non c’è niente di irreparabile, caro Palazzi! Scusa se ti do del tu, ma la tua preoccupazione testimonia una coraggiosa vicinanza ai più deboli, che mi ha un po’ commosso.

Nella stessa recensione, Palazzi ha anche avuto la bontà di definirmi “un po’ l’emblema, l’ideale incarnazione dello status di autore d’oggi, del concetto in sé di odiernità”. Be’, non capita tutti i giorni di essere elevati a incarnazione di un concetto astratto da un critico dotato di un’irriducibile individualità come Renato; e di questo gli sono grato. Ma che cosa sarebbe questa odiernità? “La condizione non del tutto espressa, eternamente in fieri di qualcuno ancora in cerca di una sua esatta dimensione. Lui [cioè io] scrive, insegna, si rappresenta e viene rappresentato, ma sempre come in attesa di una definitiva consacrazione”. Eh, no. Qui mi sembra che stiamo esagerando con l’empatia. Sono costretto a una precisazione, almeno a titolo personale (non so cosa ne pensino gli altri autori odierni).

Come tutti gli artisti o sedicenti tali, io mi ritengo sempre in cerca – ma non di una mia esatta dimensione; semmai, di idee buone e diverse dalle precedenti per il prossimo spettacolo. Scrivo, insegno, mi rappresento e sono rappresentato: cioè, sulla soglia dei cinquant’anni, riesco ancora a vivere di un lavoro che è la mia passione. Lo faccio insieme a persone che stimo, seguendo percorsi coerenti, dicendo sempre quello che penso, senza appoggi politici o compromessi, né sul palco né fuori. Questa per me, soggettivamente, è una condizione del tutto espressa, che mi rende felice. Certo, mi piacerebbe avere più successo, far conoscere a più gente il mio lavoro. Ma non sono mai stato, non sono e non sarò mai in attesa di una consacrazione, oltretutto definitiva. Il termine “consacrazione” applicato al teatro mi ripugna; lo ritengo sintomatico di una mentalità clericale, purtroppo molto diffusa nel nostro ambiente pseudo-laico. Implica che ci sia da qualche parte un’autorità sacerdotale atta a dispensare il pieno riconoscimento in quanto tale di un attore, di un autore, di un regista… Data la qualità dei “sacerdoti” che si vedono in giro, un atteggiamento di questo genere non può portare a http://www.renatogabrielli.it sul piano artistico, se non all’ansiosa proliferazione di spettacoli senz’anima, fatti per compiacere gli annoiati ghiribizzi di qualche vecchio cultore del nuovo. No, grazie. Palazzi senz’altro non ha una simile mentalità, ma non accetto che la attribuisca a me.

Dirò di più, perché il tema mi sta molto a cuore come insegnante di scrittura teatrale. Spero di trasmettere qualcosa di utile ai miei allievi, ma anche se tutto il resto fosse inutile mi basterebbe il concetto seguente: non cercate o aspettate mai una consacrazione da parte di alcuno. Ce la si può fare lo stesso, perfino in Italia. E non ha nemmeno senso cercare di fuggire, come la giovane donna protagonista della mia commedia, schifata da un paese di vecchi dentro, arrapati dall’ideale del denaro, ma soprattutto di un piccolo, miserando potere. Restiamo qui. Io, almeno, rimango qui, lietamente sconsacrato. E all’amico Palazzi dico di non preoccuparsi per me. Gli mando un forte abbraccio e gli dedico una strofa di una splendida canzone dei suoi tempi:

Come writers and critics

Who prophesize with your pen

And keep your eyes wide

The chance won’t come again

And don’t speak too soon

For the wheel’s still in spin

And there’s no tellin’ who

That it’s namin’.

For the loser now

Will be later to win

For the times they are a-changin’.