Di che cosa si parla, quando si parla o scrive di teatro sui media? Quasi per nulla ci si interessa al merito degli  spettacoli – né dal punto di vista formale né quanto a tematiche e contenuti. E’ la politica ad attrarre di più l’attenzione e suscitare dibattiti; intesa però non come materia d’elaborazione scenica, ma come politica interna al sistema teatrale, relativa alla sua gestione. Del resto, che ci piaccia o no, la politica d’oggi è in gran parte gestione, management, e per il resto (perdonate la parolaccia) “narrazione”.  Il gran bailamme intorno all’occupazione del Teatro Valle di Roma è la manifestazione più evidente di un fenomeno ampio, che va ben oltre quel singolo conflitto: un conflitto divampato non intorno a questioni artistiche, bensì politico-gestionali. Il rischio – per noi tutti – è che risulti irrilevante la capacità del teatro di farsi specchio del mondo esterno, mentre il microcosmo del teatro diventa un campo di battaglia in cui si sperimentano nuovi equilibri politici.

Non scrivo questo per sminuire l’importanza di quel che sta succedendo a Roma. Ho cercato di seguirne gli sviluppi da qui (Milano) il meglio possibile. Mi sono documentato sul pensiero sui “beni comuni”, leggendo soprattutto Ugo Mattei. Ho analizzato lo statuto della Fondazione creata dagli occupanti, tra i quali ci sono artisti che conosco personalmente e stimo. Non ho aderito, perché trovo l’ideologia “comunarda” piuttosto confusa, velleitaria e per certi aspetti regressiva, come ben illustra Ermanno Vitale nel suo pamphlet Contro i beni comuni (Laterza); trovo inoltre che nella definizione di quali siano i beni comuni da (auto)gestire ci sia un margine d’arbitrarietà preoccupante. Concordo invece con molte delle posizioni del Valle Occupato sulla necessità di rafforzare i diritti dei lavoratori dello spettacolo, di ripensare i meccanismi del diritto d’autore, di distribuire in modo equo e trasparente le risorse. Se il difficile dialogo con le istituzioni appena avviato porterà a qualche cambiamento in questa direzione, migliorando come per contagio il teatro pubblico, ne sarò sinceramente grato ai colleghi “comunardi”. Ma non è questo il punto. Il punto è che, dopo tre anni di occupazione, non mi è chiara la linea artistica – che tipo di teatro si produce lì dentro. Colpa del Valle? Colpa dei media, interessati solo al tema della legalità? Colpa mia? Probabilmente è colpa mia, dato che fatico molto a riconoscere linee artistiche ovunque, anche e soprattutto fuori dal Valle; nei grandi teatri stabili, per esempio.

Forse, per orientarmi meglio, devo rinfrescare una mentalità un po’ vecchia, liberandomi dall’idea che uno spazio teatrale tragga il suo valore soprattutto dal valore artistico (e perciò anche politico) delle opere che vi si producono. Tutto va in direzione opposta, e da molti anni. Assistiamo da tempo a un’inesorabile perdita d’identità degli spazi, che accolgono nelle loro programmazioni spettacoli eterogenei, secondo logiche di mercato e/o rispondendo a parametri ministeriali; e non a caso sono governati in larga parte da manager/funzionari, con affiancamento esornativo di qualche artista di prestigio. Questa tendenza sarà probabilmente estremizzata dal recente decreto governativo Valore Cultura. L’identità artistico/politica è dunque quella delle singole compagnie, che se la portano dietro da teatro “partecipato” a teatro pubblico, da teatro pubblico a teatro privato, come il guscio d’una tartaruga. E, alla fin fine, non c’è niente di male. Mi ci posso abituare. Ciò che manca, secondo me, è un tessuto connettivo e dialettico tra le diverse linee artistiche, insieme alla volontà di sviluppare un discorso sul teatro che sia comprensibile e interessante anche all’esterno del nostro microcosmo. Da questo punto di vista, abbiamo parecchio da fare. Questa mancanza è responsabilità di noi teatranti, non della politica o delle istituzioni.

Bisogna, in altri termini, sforzarsi di alimentare il pensiero critico intorno al teatro, che non può essere delegato esclusivamente ai pochi giornalisti professionisti specializzati nella materia; generare dibattito sul merito di ciò che si fa e vede in scena, sottraendo un po’ d’energia alla necessaria autopromozione e alla sacrosanta protesta. Nel mio piccolo (sporadicamente su questo blog o su “Hystrio”, più spesso insegnando drammaturgia)  ho provato a farlo. M’impegnerò di più – nella convinzione che l’autonomia da ogni potere di una pratica artistica aumenta quanto più è circondato da vivo interesse ciò che essa produce; anche le condizioni politico/economiche della produzione sono importanti, ma un’attenzione quasi esclusiva a queste ultime è sintomo di sostanziale irrilevanza.