No, qui non si parla di Masterpiece, la tenzone letteraria trash che ci rende ancora più fieri di pagare il canone Rai. Si parla dell’iniziativa lanciata in pompa magna dal presidente del consiglio del nostro paese in occasione degli “Stati Generali della Cultura” convocati dal giornale della Confindustria. Così egli stesso l’ha riassunta con questo entusiasmante cinguettìo: “Annunciamo il progetto #capitaleitalianadellacultura. Ogni anno un comitato nazionale con i maggiori uomini di cultura sceglierà una cittá.” Si noti, per favore, la discrezione con cui il presidente si esclude dal comitato, sbagliando di proposito l’inclinazione dell’accento sull’ultima vocale. Finezze ortografiche a parte, l’idea è geniale e sono convinto che resterà negli annali anche qualora non venisse realizzata. Rappresenta infatti il frutto più maturo di decenni di larghe intese dell’aria fritta, di politica culturale centrata sugli “eventi”. Si prende un’iniziativa per definizione eccezionale e magicamente la si rende ordinaria: una capitale all’anno – perché no? Si potrebbe anche scegliere un capoluogo di regione al mese, o un “condominio della cultura” ogni settimana. Quel che conta è l’ideologia sottostante. Qual è lo scopo esplicito del progetto? Ridiamo la parola al presidente: “mettere le città italiane in concorrenza fra loro e stimolare gli investimenti privati”, naturalmente previo “stanziamento pubblico che faccia da abbrivio”. Non manca la mozione degli affetti, il ricorso retorico e strumentale alla memoria, nella scelta della data di proclamazione della città vincitrice: il 27 maggio, ossia l’anniversario dell’attentato (nel 1993) di via dei Georgofili a Firenze.
Le finanze delle città italiane che si vorrebbero mettere in concorrenza tra loro sono state massacrate dal governo precedente, sostenuto dagli stessi partiti che appoggiano quello attuale. L’autonomia e la capacità progettuale dei comuni è stata umiliata; e la situazione non sta certo migliorando. Per esempio il bilancio 2013 di Milano è stato approvato solo pochi giorni fa, con risorse non ancora certe. In queste condizioni, la continuità, la benedetta ordinaria amministrazione, il sostegno a un serio lavoro culturale sono messi a rischio. Ma niente paura: grazie al colossale talent show ideato da Letta Enrico, una città all’anno si potrà salvare. E per le altre sarà stato comunque bello partecipare al gioco. O illudersi di averlo fatto. A pensarci bene, è lo stesso meccanismo beffardo che, su scala ridotta, presiede a tanti bandi e concorsi pubblici rivolti ai “giovani” artisti, gruppi o compagnie esclusi da stabili finanziamenti. Si nasconde il vuoto d’opportunità col fascino della lotteria, vinta da uno su mille. Meglio di niente? Secondo me, meglio il niente. Almeno dal niente si può ripartire. E’ una cappa d’ipocrisia che ci sta soffocando, mica la mancanza di soldi. Perciò mi auguro che le città italiane lascino cadere questa avvilente proposta di competizione perpetua: tutte e alla pari, se ben amministrate, hanno diritto a risorse pubbliche da destinare alla cultura e gestire con margini di autonomia. Tutte devono e possono attrarre investimenti privati; certo, bisognerebbe aiutarle con eque misure di detassazione e semplificazione burocratica. Questo governo – che pare abbia un volenteroso ministro dei beni culturali – riuscirà a farlo? Benissimo. Non ci riesce? Lo ammetta. Ma basta con il fumo negli occhi: alla lunga, acceca. #capitaleitalianadellacultura è una #buffonata da tivù spazzatura. Dunque mettiamo pure lei su Rai Tre, poi spegniamo l’apparecchio e – per sicurezza – buttiamo via il telecomando.