Non amo e – purtroppo per me – in larga parte non capisco il teatro della Socìetas Raffaello Sanzio. Ma si tratta di una delle compagnie italiane più famose e apprezzate nel mondo, e trovo naturale e opportuno che un teatro della mia città, Milano, abbia deciso di programmare il suo spettacolo Sul concetto del volto del Figlio di Dio. Com’è noto, lo spettacolo, diretto da Romeo Castellucci, ha suscitato forti proteste di gruppi cattolici tradizionalisti quando è stato rappresentato in Francia; il Teatro Franco Parenti ha motivo di temere che il fenomeno si ripeta qui da noi. Sollecitata a intervenire nel dibattito che ne è seguito, la curia milanese ha chiesto alla direzione del teatro “una maggiore attenzione al momento della programmazione degli spettacoli”. Non ha invece preteso o suggerito la sospensione del lavoro di Castellucci, e questo è parso al laico Umberto Veronesi, oggi sul “Corriere della Sera”, un segnale di saggezza e apertura al dialogo. Be’, sapersi accontentare fa bene alla salute e allunga la vita: dunque avrà ragione lui. Del resto – anche se il dilagante gusto per il vintage ce la fa rimpiangere, assieme ai vecchi flipper, ai poster con le maggiorate e ai film di Ciccio e Franco – non siamo più ai tempi della censura democristiana. Sinceramente, non penso che una presa di posizione della Chiesa Cattolica possa limitare più di tanto la libertà di espressione; nemmeno in Italia. Più che nell’annosa dialettica tra laici e cattolici, o tra liberali e conservatori, la bagarre intorno a Sul concetto del volto del Figlio di Dio trova a mio avviso una chiave di lettura nel radicarsi, a ogni livello della nostra società, di un modo di pensare politicamente (e religiosamente, e culturalmente) corretto.
Torniamo all’interessante documento della Curia. A che cosa dovrebbe rivolgere maggiore attenzione la direttrice del Franco Parenti? A che sia rispettata la sensibilità dei credenti. Andrée Ruth Shammah assicura di avere prestato la massima attenzione a questo aspetto. Il regista ha tagliato dalla versione che sarà presentata a Milano la scena più controversa e potenzialmente offensiva. Ma ad alcuni credenti ciò non basta. E non c’è da stupirsi: la sensibilità è un dato squisitamente soggettivo. E poco conta il suggerimento, d’antico buon senso, di tenersi lontani da quel teatro in cui si teme di venire offesi. La sensibilità può essere ferita anche da lontano, per eco mediatica, per sentito dire. Dopo il tramonto delle ideologie, ci ritroviamo ad aggrapparci a fragili vincoli identitari. Le comunità (basate non necessariamente su un comune credo religioso, ma anche su convinzioni politiche, appartenenza etnica o territoriale, stili di vita) si sentono facilmente minacciate da comportamenti e opinioni perturbanti; in certi casi, opporsi a quelle che vengono percepite come “offese” diventa fondamentale per la loro coesione interna. Ciò genera un clima di diffusa permalosità sociale, uno spazio pubblico in cui le chiacchiere sul “dialogo” e sul “rispetto” fanno velo all’incapacità di accettare, prima di tutto sul piano emotivo, quel che risulta diverso o incomprensibile.
Nel campo delle arti, la degenerazione di quella che negli anni novanta il critico Robert Hugues ha felicemente battezzato “cultura del lamento” porta a un effetto paradossale. Da un lato, gli artisti e gli organizzatori si trovano a farsi condizionare da una sorta di cautela preventiva: stiamo attenti, sempre più attenti a non offendere nessuno – producendo così ovviamente opere inoffensive, rivolte a settori di pubblico in cerca di rassicurazione rispetto ai propri preconcetti e comode aspettative. D’altro lato, può essere forte la tentazione di andare volontariamente all’attacco della sensibilità di qualcuno, correndo qualche pericolo ma magari puntando alla visibilità mediatica (beninteso, questo non è il caso della Raffaello Sanzio, che di pubblicità non ha bisogno). Insomma, lo spazio per un’arte libera, che non abbia né faccia paura, che non abbia bisogno di definirsi provocatoria perché provocatoria lo è sempre, si restringe.
A questo proposito, e senza alcun intento polemico, vorrei porre una questione. Benissimo, tuteliamo i diritti di chi potrebbe offendersi. Ma a chi non si offende, chi ci pensa? Sì, perché ci sono persone, e sono ancora tante, credenti e non, che amano andare a teatro, al cinema, a una mostra, o leggere un libro, mettendo in conto la possibilità di essere spiazzati rispetto alle proprie intime convinzioni, turbati, magari feriti. Non è indispensabile, non è un obiettivo, ma può accadere. Ci si può arrabbiare, anche molto, oppure rimettere in discussione. Ma fa parte del piacere e del senso della fruizione artistica. Come spettatore milanese, mi preoccupa la prospettiva che i direttori dei teatri facciano “maggiore attenzione” a non urtare le sensibilità – religiose o secolari che siano. Mi aspetto di poter vedere lo spettacolo di Castellucci, se ne avrò voglia, senza che alcuno mi insulti o mi disturbi. Mi dispiace che abbia tagliato la scena “scandalosa”. Non so se mi scandalizzerebbe. Magari sì. Ma almeno, vedendola di persona, mi farei un’idea mia sulla questione. Farsi un’idea propria: suona strano, come desiderio?
Gentile arcivescovo di Milano, qui non si propone “un’esaltazione unilaterale della dimensione individuale della libertà di espressione”. Nessuno sostiene, in altri termini, che un regista teatrale possa dire o mostrare tutto quel che gli passa per la testa. Ci sono dei limiti legali, per esempio in caso di diffamazione o istigazione a delinquere. Tutte le libertà hanno – è chiaro – dei confini, che lo Stato moderno definisce anche per sottrarli alle sabbie mobili della “sensibilità” (e dunque all’arbitrio) di individui o di gruppi organizzati. Qui si dice che l’apertura mentale, la curiosità intellettuale, la capacità di assumersi dei rischi quando si parla e quando si ascolta sono qualità preziose per la vita civile, e ben diverse dalla falsa tolleranza e dall’indulgenza a blande auto-censure in cui la nostra cultura sta sprofondando. In difesa di chi coltiva tali qualità, da una figura del suo rilievo mi sarei aspettato delle parole più chiare. Ma se non arriveranno – per carità – non mi offendo.
Tra i numerosi articoli relativi a questo “caso”, segnalo in particolare quello di Oliviero Ponte di Pino su ateatro.it; sui siti di Repubblica, Corriere, Fatto Quotidiano, Avvenire e del Teatro Franco Parenti si trovano con facilità gli interventi cui faccio riferimento in questo post.