“Con la cultura non si mangia”.

“La bellezza salverà il mondo”.

Rilanciate rispettivamente da Giulio Tremonti e da Matteo Renzi, queste frasi segnano le punte retoriche estreme di due visioni in apparenza contrapposte. Eppure, nel passaggio dal governo di “destra” di cui il primo era esponente di primo piano a quello di “sinistra” guidato dal secondo, non molto sembra cambiato, quanto alle concrete dinamiche di potere tra il ceto politico e il variegato mondo della produzione artistica e culturale. Fatto sta che, sotto la vernice oratoria, c’è la condivisione di un’idea pregiudiziale della cultura come blocco unitario, indistinto, da sminuire in quanto inutile orpello, o esaltare come salvifico elemento identitario. In tal senso, essa è tutt’altro che ai margini del dibattito contemporaneo; nella progressiva convergenza delle politiche di fatto, un diverso atteggiamento nei confronti della cultura è uno dei pochi elementi residui che consentono a “destra” e “sinistra” di distinguersi tra loro.

Da ciò deriva una diffusa tendenza – non solo in ambito politico – a sottovalutare, trascurare o ignorare il conflitto, le feconde differenze e le contraddizioni all’interno del campo stesso di coloro che a vario titolo si occupano di arte e cultura; i quali per converso serrano i ranghi, in legittima auto-difesa dai numerosi nemici esterni. Dilaga così in questi anni una sorta di conformismo ben intenzionato, animato dalla volontà di intrattenere e blandamente confortare sulle proprie inutili buone ragioni una fetta illuminata di quella classe media che sta progressivamente perdendo i suoi diritti di cittadinanza. È, questa, la cultura-oppio-della-borghesia oggi dominante; con tutte le sue strane, paradossali, tacite regole del gioco. La più bizzarra è quella che fonda il prestigio, il valore di mercato dell’artista o dell’intellettuale sulla sua apparente indipendenza da ogni potere economico e politico – a cui anzi può risultare funzionale contrapporsi. Ecco dunque il noioso trionfo di un’arte di lotta e di governo: di lotta fuori e di governo dentro, come certi vecchi biscotti dal ripieno molle, il cui sapore dolciastro ti resta in bocca anche dopo decine di risciacqui.

Ma – perdonate la banalità – la politica e l’economia non sono tutte nere, né la cultura tutta bianca; e soprattutto s’intrecciano tra di loro a livello strutturale, con coincidenze davvero interessanti. Pensiamo per esempio al diffuso bisogno di narrazione cui il teatro ha risposto con ampio anticipo rispetto alla comunicazione politica e aziendale. Mai come durante l’attuale pandemia di storytelling la capacità di raccontare in sé e per sé è stata così sopravvalutata, anche sul piano etico e conoscitivo. A una bella storia non si chiede di additare un senso, ma di esaurirlo nel suo arco narrativo, mettendoci in asse con il punto di vista unico da cui viene narrata; un punto di vista che, già in partenza, non è poi così distante dal nostro. Una bella storia, compiuta, ci separa da una realtà che sempre meno riusciamo a interpretare, dandoci un’illusione di controllo. Ci protegge provvisoriamente dall’angoscia. E ci persuade: ad acquistare un prodotto, a votare per un partito politico, o ad ascoltare ancora un’altra storia. Beninteso, quest’umano bisogno di narrazione lo sento anch’io; anche a me piacciono le belle storie. Ma al teatro (e al cinema, e alla letteratura) chiedo anche altro. E credo che esista tuttora un pubblico interessato allo spiazzamento, al paradosso, a una scrittura che ponga la trama al servizio del linguaggio e non viceversa (poiché è solo attraverso il linguaggio che possiamo cercare forme di libertà intellettuale dai condizionamenti del potere), a una drammaturgia eccentrica che metta scomodo l’attore, piuttosto che farne l’esibizionistico portavoce di un sapere premasticato.

Tempi duri, comunque, in teatro, per questo tipo di pubblico, aperto a quella che una volta si diceva “ricerca”, ma che io attualmente definirei tradizione, dato che solo un drastico affrancamento dall’inflazione narrativa ci consente di riprendere le fila della migliore tradizione scenica novecentesca. Mercato e burocrazia ministeriale sembrano alleati – chissà quanto intenzionalmente – nel favorire l’omologazione delle proposte. Si fatica a distinguere uno spazio dall’altro per linea artistica; quelli più grandi o multipli accumulano sugli scaffali gli spettacoli più appetibili dei diversi “generi”, sfruttando le economie di scala, l’asimmetria nelle sovvenzioni, l’attrattiva dei loro bar/ristoranti. L’asfissia del pensiero critico aumenta la confusione. “E se tornassimo a parlare di teatro?” – chiede Claudio Morganti, ben chiosato da Andrea Porcheddu. Cioè – non tanto di politica teatrale, quanto di poetiche e di pratiche di scena. Buona idea. Bisogna farlo quanto prima, senza delegare in esclusiva il compito alla critica professionale. E comunque non vedo alternative. Ormai abbiamo sperimentato che insistere nella vana protesta contro un potere deteriormente teatrale significa farsi inglobare, come eccitate comparse, in uno spettacolo sempre uguale a se stesso; in una narrazione stucchevole e ipocrita, che di buono può solo ispirare un’acuta nostalgia del silenzio