Debutta questa sera al Teatro Strehler di Milano Giulio Cesare di William Shakespeare, con la regia di Carmelo Rifici; per questo spettacolo ho curato l’adattamento drammaturgico della traduzione di Agostino Lombardo.

Riporto qui sotto il breve saggio che ho scritto per il programma di sala.

La lingua del potere e lo spettacolo della violenza

Per chi fa teatro oggi è molto difficile mettere credibilmente in scena il potere politico, rappresentandone con efficacia le contraddizioni. In primo luogo, si fa fatica a individuare chi davvero siano i detentori di tale potere; a dare loro nomi, volti, sostanza e dignità di personaggi. In secondo luogo, il teatro stesso si ritrova ai margini dei circuiti d’influenza economica e politica, in una sostanziale condizione di irrilevanza nel dibattito pubblico (a meno che certi suoi contenuti non “rimbalzino” su altri mezzi di comunicazione); e come si fa a parlare di un mondo da cui si è di fatto esiliati? Dobbiamo capolavori della drammaturgia come il Giulio Cesare di Shakespeare, oltre che al genio dei loro autori, all’importanza del teatro nel contesto economico e sociale in cui sono stati concepiti. Anche per questo, “attualizzarli” è un delitto inutile. Si può semmai indagarli nella speranza che la loro complessità getti qualche squarcio di luce sul nostro presente frammentario e confuso.

Rome is a room. L’intraducibile gioco di parole che ricorre nel testo, mettendo in corto circuito la grandezza di Roma con l’angustia di una stanza, assume un valore peculiare nel progetto registico di Carmelo Rifici. I numerosi ambienti esterni evocati nel copione shakespeariano vengono ricondotti  all’interno di un sistema di stanze che si scompongono e ricompongono,  incastrando inesorabilmente i personaggi, guidandone i percorsi, limitandone la libertà. Non c’è pubblica piazza, non c’è campo aperto di battaglia. Questo senso di chiusura, di fatalità opprimente, mi pare un punto in comune tra il nostro spettacolo e il bel film dei fratelli Taviani, Cesare non deve morire: penso alla significativa incombenza delle mura di Rebibbia entro cui gli attori/detenuti provano il loro Shakespeare. Roma – lo sappiamo già – non è grande. Che si svolga in un carcere o in un palazzo, la lotta per il potere si confonde con il crimine e segue una sua logica implacabile, senza vie d’uscita.

L’adattamento che ho realizzato insieme a Rifici ha comportato dunque soprattutto un lavoro di taglio e nuovo montaggio della traduzione di Agostino Lombardo su misura di una precisa drammaturgia dello spazio. Abbiamo scelto di “asciugare” drasticamente  le battute dei personaggi principali (in particolare di Bruto, Cassio e Antonio), per  poter dare anche rilievo a figure in apparenza minori, conservando scene o spezzoni di scena che nella maggior parte degli allestimenti vengono tagliati. In ciò si asseconda l’intento registico di dare vita in primo luogo a un ambiente: quello di una Roma/stanza inquieta, contraddittoria, avida e timorosa al tempo stesso di uno sconvolgimento epocale che tutti, dall’irridente calzolaio che appare solo nella prima scena a Cesare stesso, avvertono come inevitabile.

Sotto il velo di una retorica che raggiunge nei versi shakespeariani vette altissime, ribollono spinte irrazionali, invidie appassionate e inconfessabili, deliri di superstizione. Giulio Cesare è una tragedia di presagi che si avverano e di eroi che soccombono ai propri fantasmi, rinunciando di fatto all’autonomia etica che si ostinano a rivendicare. I potenti usano l’occultismo a scopo di manipolazione, ma sono a loro volta sedotti, fuorviati, ipnotizzati. Non si dimostrano poi sostanzialmente diversi da quel popolo che disprezzano a parole, o che, con la forza delle parole, inducono a scatenare un’incontrollabile violenza. E infatti gli artigiani sostenitori di Cesare nella scena iniziale – da noi rielaborata per evidenziare l’aspetto sinistro, più minaccioso che comico, dei giochi di parole – si contrappongono da pari a pari, senza palesare alcun tipo d’inferiorità, ai nobili Flavio e Marullo.

Non dobbiamo poi dimenticare che Giulio Cesare ci chiama in causa – e già faceva lo stesso con il pubblico dei tempi di Shakespeare – come spettatori della violenza. Dichiara Cassio, invitando gli altri congiurati a immergere le mani nel sangue di Cesare appena ucciso: “In quante età future questa nostra scena sublime verrà recitata, in stati ancora non nati e con accenti ancora sconosciuti!”. L’aspettativa di Bruto e Cassio è che ogni membro del pubblico che assista alla rappresentazione del loro atto omicida ne riconosca e convalidi il carattere sacrificale e salvifico per un’intera comunità; ma lo sviluppo della tragedia smentisce nettamente questa loro pretesa. Parimenti, ai giorni nostri lo spettacolo della morte violenta dei tiranni, non rappresentata ma riprodotta a volontà in televisione e su internet, magari con intento pedagogico o catartico, ci riduce in uno stato di complice voyeurismo.

Omicidi. Suicidi. Saccheggi. Incendi. Battaglie. Nel copione di Shakespeare non mancano certo le scene d’azione, e il sangue si sparge senza risparmio. Si è scelto di immergere queste scene in un’atmosfera rarefatta e allucinatoria, come se anche colui che perpetra la violenza ne fosse al tempo stesso spettatore impotente. E’ una specie di dilatarsi, anche nel culmine degli scontri, del tormentoso interim attraversato da Bruto nel secondo atto: “Tra l’attuazione d’una cosa spaventosa e il primo impulso, l’intervallo è come un’allucinazione o un sogno odioso”. Beninteso, il clima onirico non depotenzia i conflitti, né li rende irreali, ma accentua una scissione interna ai personaggi in cui una sensibilità contemporanea non può non rispecchiarsi. La violenza è sempre altrove, goduta come uno spettacolo, contemplata a distanza, perfino se siamo noi stessi a compierla, o se viene compiuta in nostro nome.  Coerentemente con questa impostazione, della battaglia di Filippi, che occupa tutto il quinto atto del Giulio Cesare, nulla appare in scena; la si evoca nel susseguirsi incalzante dei dispacci che i comandanti ricevono nei loro asettici quartieri generali.

Lavorare su un “classico” sul versante drammaturgico significa, il più delle volte, risolversi a tagliare ampi brani di testo di qualità infinitamente superiore a quanto mai si riuscirà a scrivere in proprio. E’, insomma, una faccenda piuttosto dolorosa, che genera sensi di inadeguatezza e di colpa.  Ma spero di averla sbrigata in modo ragionevole, in armonia con un disegno registico originale e rigoroso. E sono lieto in particolare perché abbiamo risparmiato le forbici a una breve scena, che sovente in passato ne è stata vittima: quella in cui il poeta Cinna, omonimo di un congiurato, viene scambiato per quest’ultimo e aggredito dalla folla. Intellettuale anti-eroico, forse un po’ con la testa tra le nuvole, è per coraggio o per sciocca leggerezza che mette il naso fuori casa in un momento per lui così poco opportuno? Di questo Cinna sarebbe bello sapere molto di più; e pare che anche lui, come Rosencrantz e Guildestern, gli sfortunati amici di Amleto riscattati da Tom Stoppard, abbia trovato un valido autore capace di confezionargli intorno una commedia intera. Dovrebbe debuttare a Londra nei prossimi mesi I, Cinna (the Poet) di Tim Crouch.  Vedremo se il nuovo testo gli renderà compiutamente onore. Ma, nel frattempo, non lasciamoci troppo condizionare, o intimidire, dalla disavventura di questo nostro antenato. Anche se il cielo è minaccioso e i presagi non sono buoni, vale sempre la pena uscire di casa.