Su Altre Velocità, Graziano Graziani traccia, con un proprio articolo e con un’approfondita intervista ad Attilio Scarpellini,  un primo bilancio del decennio teatrale appena concluso. Si tratta di un tentativo di interpretazione provvisorio e volutamente “aperto”, ben meditato e ricco di spunti illuminanti. Colgo qui  uno di questi spunti, aggiungendo qualche osservazione alla prima risposta data da Scarpellini. Graziani apre la sua intervista evidenziando un dato quantitativo, cioè il notevole aumento di “formazioni che praticano l’arte teatrale a un livello professionale”. Nella sua ipotesi di spiegazione di questo fenomeno, Scarpellini afferma tra l’altro che “il teatro rappresenta oggi l’interruzione più intensa e più anacronistica dei circuiti di mediatizzazione prevalenti: attraverso di esso si cerca anche di recuperare una concretezza, una realtà che appare sempre più “perduta” a quel mondo di simulazioni dove la finzione e il reale si scambiano continuamente di posto”. E’ un’ipotesi affascinante, che corrisponde al desiderio di tanta parte di noi teatranti: si spera sempre che la nostra marginalità sia significativa, e che l’esperienza degli spettatori sia di una qualità completamente diversa da quella del consumo di prodotti mediatici.

Ma il fermento produttivo degli Anni Duemila, o Anni Zero che dir si voglia, si può spiegare anche a un altro livello, più terra terra, che accomuna l’arte teatrale ad altre discipline “tecnicamente riproducibili”. E cioè: molta più gente vuole ed è in grado di produrre, con mezzi limitati ma su standard professionali, non solo opere teatrali, ma anche video, musica, libri, oggetti d’arte, ecc. Il confine stesso tra professionismo e dilettantismo si è sfarinato; in linea di massima, ciò che fa la differenza tra un artista e l’altro è la possibilità di accedere a determinati circuiti distributivi. Questo processo di “democratizzazione” ha fortemente accelerato nell’ultimo decennio e ci sono buoni motivi per pensare che sia irreversibile. Che ci piaccia o meno, dobbiamo fare i conti con le sue conseguenze, talvolta paradossali. Per esempio, in ambito teatrale i lavori di maggiore interesse sono prodotti da compagnie, giovani d’anagrafe o giovani dentro (Graziani e Scarpellini ne citano diverse), che agiscono al di fuori o ai margini del circuito sovvenzionato. Il paradosso è che la battaglia contro i selvaggi tagli al FUS, sacrosanta in via di principio, va soprattutto a protezione del teatro meno interessante. C’è poi una pluralità di poetiche, di stili, di modalità di relazione con il pubblico che convivono fianco a fianco, scarsamente interagendo tra di loro. Gli spazi teatrali sono diventati in gran parte contenitori dall’identità labile, dove si alternano proposte di regia critica, nuova drammaturgia, narrazione, performance, teatro visivo e via etichettando. L’abbondanza e la varietà non sono un male – anzi, c’è da augurarsi che la crisi economica non le stronchi. Ciò di cui si sente la mancanza è un rinnovato senso critico e di prospettiva storica.

Non mi riferisco tanto ai problemi della critica giornalistica, soffocata dal declino della carta stampata e dal nonnismo redazionale, quanto a un deficit che riguarda spettatori e artisti. Sul versante del pubblico, mentre i grandi numeri si muovono per i nomi promossi dai media, le forme di teatro più sperimentali tendono ad aggregare intorno a sé piccole comunità un po’ incestuose, restie a mescolarsi o curiosare altrove. Del resto, chi ha occasione di frequentare scuole e università può notare come si siano indeboliti i tradizionali strumenti di lettura del fatto artistico, mentre acquista rilievo la partecipazione; in altre parole, per imparare a guardare il teatro, mi è quasi indispensabile farlo. Ciò rende necessario un ripensamento delle strategie formative, per evitare che l’esperienza diretta comporti, anche qui paradossalmente, un restringimento del campo d’interesse degli studenti. Sul versante degli artisti, la necessità di auto-promuoversi attraverso il falso valore dell’originalità rende poco vantaggioso riconoscere le filiazioni, le reciproche influenze, e perfino le avversioni. Si rifanno cose già viste (e questo va bene), senza ammetterlo (e questo può fare parte del gioco), o addirittura senza rendersene conto (e questo è grave).

Un buon proposito per il decennio a venire sarebbe quello di aumentare, per intensità e franchezza, il dibattito critico innanzitutto tra chi il teatro lo fa; e, provando ad estrarre qualche filo da una matassa davvero intricata, Graziani e Scarpellini ci hanno dato un buon esempio.