E’ una crisi ben strana, questa, per noi che lavoriamo in teatro. Mancano i soldi ma, paradossalmente, si produce sempre di più, sempre più in fretta. C’è un’ansia diffusa d’esserci ancora, di dimostrarlo, di segnare il territorio. L’iper-produttività si accompagna a enormi difficoltà di distribuzione (questo vale anche per altri settori artistico/culturali – si pensi, ad esempio, al congestionatissimo mercato dei libri). Il pubblico appare frammentato, imprevedibile, sfuggente. Nulla è cambiato nella gestione di sovvenzioni pubbliche in calo costante, mentre sul versante privato trionfano il marketing e corto-circuiti promozionali con la televisione. Il web offre qualche nuova opportunità, difficile però da cogliere nell’aumento esponenziale della confusione. La fiducia che dal versante della rappresentanza politica possa arrivare qualcosa di buono è pari a zero. Chi ha tempo da perdere può dare un’occhiata qui alle proposte in ambito culturale dei  candidati premier, o forse di loro ghostwriter sottopagati che le hanno buttate giù nei ritagli di tempo. Le risorse per la cultura saranno, malgrado queste pigre promesse, ridotte ancora – più  lentamente, se vince il centrosinistra; in modo più rapido e disastroso negli altri casi. Anche per questo motivo, tra tanti altri, andare a votare tra due settimane sarà un esercizio estremo di ginnastica del menopeggio.

Il problema è che pensiamo tutti a come uscire dalla crisi, mentre bisognerebbe entrarci davvero, nella crisi, e fino in fondo, ripensando al nostro modo di operare nella certezza che nulla sarà più come prima. E, tanto per cominciare, dire basta all’iper-produttività, all’eccitazione da finto nuovo. Fare meglio. Fare meno. Valorizzare quel che si è già fatto. Dalle discussioni con amici e compagni d’arte negli ultimi mesi emerge con sempre più forza il desiderio di rimettere al centro il repertorio – sperimentando forme di continuità del lavoro teatrale adeguate ai tempi. Mentre i teatri stabili hanno ormai di stabile solo le loro dirigenze, e il più delle volte ammazzano sadicamente in culla begli spettacoli appena partoriti, è tra le piccole compagnie e gli spazi indipendenti che si fa strada la consapevolezza che solo attraverso la ripetizione, la ripetizione e la ripetizione il fare teatro acquista senso e qualità. Dato che le teniture lunghe su palcoscenici tradizionali sono spesso impraticabili dal punto di vista economico, ci si prova a inventare delle forme di sensata “agilità” produttiva e distributiva, per esempio con lavori a basso costo e minimo ingombro scenografico, che si riallestiscono periodicamente in spazi diversi, magari convocando il pubblico sui social network; o rivisitando generi antichi, come l’avanspettacolo o la pubblica lettura, che consentono a ogni nuova “serata” di effettuare variazioni sulla base di repertori consolidati. Si comincia, timidamente, a pensare di “fare rete”, affinché simili iniziative si rafforzino a vicenda invece di farsi tra loro concorrenza al ribasso.

Lavorare per la continuità – nella relazione tra artisti e segmenti di pubblico, nel pensiero critico tra artisti, nell’auto-formazione e nella trasmissione delle tecniche – significa per me remare controcorrente, ma nella direzione giusta: è opposizione non retorica, concreta, costruttiva, alla politica culturale che ha trionfato negli ultimi decenni, centrata sul culto dell’”evento”, sull’affannosa creazione di piccoli choc pseudo-rivoluzionari che non cambiano nulla, su un ideale di visibilità ininterrotta e infelice, in cui si smarriscono le prospettive e la memoria.