Da nostalgico, anacronistico amante della finzione pura, seguo con un misto di curiosità intellettuale e fastidio l’affermarsi, nelle arti contemporanee, di una vasta tendenza a portare sulla scena, sulla pagina, sugli schermi, quella che si vuol fare apparire una “realtà” immediata, che scavalca mimesi, rappresentazione e filtri interpretativi. La questione è complessa, ma lo scrittore statunitense David Shields si assume l’onore e l’onere di una sintesi – riferita soprattutto alle problematiche della narrativa – nel suo affascinante Reality Hunger – a manifesto (Hamish Hamilton). Riporto qui un brano che ho trovato molto significativo:
“An artistic movement, albeit an organic and as-yet-unstated one, is forming. What are its key components? A deliberate unartiness: “raw” material, seemingly unprocessed, unfiltered, uncensored, and unprofessional. (…) Randomness, openness to accident and serendipity, spontaneity; artistic risk, emotional urgency and intensity, reader/viewer participation; an overly literal tone, as if a reporter were viewing a strange culture; plasticity of form, pointillism; criticism as autobiography; self-reflexivity, self-ethnography, anthropological autobiography; a blurring (to the point of invisibility) of any distinction between fiction and nonfiction: the lure and the blur of the real.”
Sugli allettamenti, talora osceni, di questo reale manipolato, che si sfuma e confonde col fittizio – sul piacere o l’inquietudine (in me prevale l’inquietudine) che il lettore o lo spettatore degli anni Duemila ne può trarre, varrà la pena tornare a riflettere.