Con il proprio corpo, e un po’ anche con quelli altrui, tocca sempre fare i conti, alla fin fine; e man mano che si invecchia tutto il resto appare così opinabile che quasi passa la voglia di parlarne. Sarà forse per questo che negli ultimi anni è cresciuto in me un interesse incolto, goffo e genuino per le forme teatrali che privilegiano l’espressione corporea rispetto a quella verbale. E forse c’è anche una stanchezza tutta personale per le parole – o almeno per il modo in cui ultimamente mi ritrovo a metterle in fila. Alla ricerca di nuovi punti di partenza, o di possibilità di stupirmi, ho incontrato il Teatro delle Moire, con cui dall’anno scorso collaboro come dramaturg. Devo questo incontro alla regista Sabrina Sinatti, che coinvolse in due spettacoli da me scritti e da lei diretti, Cesso dentro e Tre, Attilio Nicoli Cristiani, fondatore delle Moire assieme ad Alessandra De Santis. La mia formazione teatrale ha ben poco in comune con quella di Attilio e Alessandra, ma ciò non ci ha impedito di trovare importanti consonanze, nel percorso che ha avuto come prima tappa Never Never Neverland nel 2010 e prosegue ora con It’s always tea-time, che debutterà a fine settembre al Lachesi Lab di Milano.

La prima affinità profonda che ho avvertito è quella nell’approccio al lavoro teatrale, inteso come gioco da prendere assai sul serio, ovvero, per quanto possibile, con leggerezza e rigore. Condividevo poi con le Moire l’idea della centralità della presenza dell’attore/performer, anche se la mia esperienza era soprattutto quella di costruire per alcuni attori testi su misura (o dalla cui misura potessero uscire, per rivelare qualcosa d’imprevisto), mentre la parola non era e non è protagonista negli spettacoli e nelle performance della compagnia. A livello tematico, ci siamo ritrovati a scambiarci fittamente idee e stimoli di lettura soprattutto sull’infanzia negli adulti, sull’infantilismo, sui residui creativi e perversi dell’essere irrevocabilmente stati bambini; e non è un caso che i titoli dei due spettacoli rimandino rispettivamente a Peter Pan e ad Alice nel Paese delle Meraviglie. Il tema è stato esplorato cercando di evitare letture preconcette o unilaterali, per far vivere in scena, con imparziale ambiguità, sia il potenziale liberatorio che quello inquietante e regressivo dell’immaginario infantile. Si è creata una tensione dialettica tra lo studio dell’immaturità al potere, della manipolazione comunicativa che trasforma i cittadini in bambocci, e il riconoscimento dentro a noi stessi del desiderio irrealizzabile e un po’ indecente di evadere dalla gabbia di un’identità adulta e responsabile – desiderio che, tuttavia, trova riscatto nel gioco teatrale. Tale gioco, in entrambi gli spettacoli, è animato da un instancabile impulso alla metamorfosi: se in Never Never Neverland si trasformavano senza sosta le quattro figure umane approdate in un’”isola che non c’è” fatta di vestiti e accessori usati, in It’s always tea-time è il candido spazio scenico a riempirsi e svuotarsi in un tempo sospeso, scandito solo dalle azioni meticolose e bizzarre di performer dall’apparenza “neutra”.

Sebbene ricorrano temi e ossessioni e resti ben riconoscibile l’impronta stilistica della compagnia, c’è stata a mio avviso un’evoluzione tra i due lavori: nel secondo abbiamo puntato su un’ironia più sottile, su una maggiore fluidità dell’azione scenica, sulla sfida di farci ascoltare abbassando la voce. Per l’esito di questa sfida, bisognerà attendere, dopo ancora tre settimane di prova, l’incontro con il pubblico. Intanto, dal punto di vista drammaturgico, abbiamo consolidato una sorta di metodo, che prevede quattro fasi: la prima, molto lunga e spesso informale, consiste nella raccolta di materiale scritto, audio e video, inframezzata da numerose discussioni; nella seconda, i performer (che in It’s always tea-time, oltre a De Santis e Nicoli Cristiani, sono Gianluca De Col ed Emanuele Sonzini) creano in sala una grande quantità di improvvisazioni, sempre videoregistrate; nella terza, si seleziona, con faticose rinunce, il “fior fiore” delle improvvisazioni e si ipotizza sulla carta, in forma di racconto, un primo montaggio; e infine nella quarta fase si mette alla prova quell’ipotesi, fino all’ultimo restando aperti ai mutamenti imposti da evidenti errori o nuove scoperte.

Ma mi rendo conto che, spiegato così, questo simil-metodo ha l’aria fin troppo seria e rassicurante; e dunque non ho dubbi che, infantilmente, lo butteremo gambe all’aria alla prossima occasione.