Prima di ricevere un diploma honoris causa da parte dell’Accademia dei Filodrammatici, che compie in ottima forma 220 anni (auguri!), il regista Declan Donnellan, stimolato dalle domande di Bruno Fornasari e Tommaso Amadio, ha offerto al pubblico numerosi spunti di riflessione tutt’altro che banali sulla pratica teatrale, sul mestiere dell’attore, ma anche sui rapporti tra arte, cultura e politica.

Donnellan è con ogni evidenza amante della buona conversazione, arguto, facondo, incline all’aneddoto fulminante e alla storiella esemplare. Ha una sorta di piacevolezza tagliente, o di garbo spietato, con cui smaschera luoghi comuni e narcisistiche indulgenze che infettano il linguaggio del teatro contemporaneo. Il suo bersaglio polemico primario sembra essere il soggettivismo, la pretesa d’espressione e controllo della propria interiorità da parte dell’attore/soggetto; che trova il suo corrispettivo, uscendo dalle mura teatrali, in un antropocentrismo irresponsabile. L’attore di Donnellan è dunque, al contrario, in perenne ascolto dello spazio che lo circonda e costruisce il percorso del personaggio sulla base non solo della volontà, ma anche e soprattutto delle paure del medesimo. Con intuizione psicologica meritevole d’approfondimento, Donnellan sostiene infatti che gran parte delle nostre azioni sono determinate, più che da una volontà vera e propria, dal timore delle conseguenze del non compierle. Ha detto proprio così? Non ho preso appunti, e comunque mi sarebbe impossibile riassumere fedelmente quell’ora circa di pertinenti divagazioni. Peccato per chi non c’era, lunedì sera ai Filodrammatici di Milano.

Mi aggancio piuttosto a un’osservazione in apparenza marginale del regista premiato, perché va a toccare un tema su cui ho già scritto inutilmente, ma che non riesco a togliermi dalla testa. Racconta Donnellan che dopo un devastante attentato terroristico ha ascoltato alla radio un dibattito tra un laburista e un conservatore, atrocemente uniti nell’individuare la soluzione in una sola parola: education. Come se fosse in primo luogo e semplicemente una supposta mancanza d’istruzione nei terroristi a poterci fornire una spiegazione tollerabile dei loro atti; e l’indicazione di una strada per estirparne le radici. Idea, questa, che non regge a un minimo confronto con la realtà fattuale. E’ come se all’interno del discorso pubblico fosse impronunciabile, perché troppo disturbante, il puro odio, la volontà di distruzione dell’altro come movente dell’azione politica. Ecco allora che il teatro diventa, o permane quel luogo in cui si possono ancora fare i conti, pericolosamente, con il fondo magmatico, irrazionale, distruttivo che la civiltà umana con alterne fortune cerca di reprimere o dissimulare. Fin qui Donnellan, per come me lo ricordo. Da qui continuo a modo del tutto mio.

Seguendo un processo logico simile a quello dei due politici inglesi alla radio, nei giorni successivi agli ultimi attentati di Parigi il nostro presidente del consiglio ha ripetutamente dichiarato che la risposta italiana si sarebbe anche sostanziata in maggiori investimenti nella cultura. Ad allora risale l’invenzione del “bonus cultura” per i diciottenni, attualmente in corso di faticosa distribuzione; una misura che ritengo iniqua, volgarmente paternalistica e inefficace. Ma non mi soffermerei sulla discrepanza tra proclami politici e risultati; abbiamo fatto l’abitudine a sconnessioni perfino abissali. Ciò su cui mi interrogo, da persona che lavora nel cosiddetto settore culturale, è l’uso sempre più spregiudicato che viene fatto del termine “cultura” nel dibattito pubblico.

C’è come un’esasperazione in parodia d’una storia vecchia e un tempo seria: quella del predominio, ideologico e di micro-potere, della sinistra in quest’ambito. Persa la bussola di una progettualità politica praticabile e ben distinta, la fu-sinistra trova nella difesa (retorica) della “cultura” un’ultima bandiera identitaria; mentre una destra sempre più illiberale vi si contrappone senza residuo ritegno. In mezzo a questo gran chiasso strumentale, diventa sempre più difficile fare semplicemente il proprio lavoro – di teatrante, per esempio – in piena autonomia. La pessima riforma del teatro elaborata e poi imposta per decreto da due governi di fu-sinistra, con l’unica buona argomentazione che la si attendeva da decenni, ha tra i suoi effetti più prevedibili una riduzione degli spazi di autonomia e libertà per gli artisti. A quanto pare, però, è già in cantiere una riforma della riforma. E così via, riformando. I veri creativi sono al potere, e giocano con algoritmi.

D’altra parte, è una sfida interessante, che si rinnova sempre diversamente, con sempre maggiori difficoltà, quella di un’autonomia profonda, radicale, del teatro dalla politica. Io non so se ce la faccio, ma ci sono tanti colleghi in gamba che possono e vogliono praticarla. Ciò che davvero mi preoccupa è il problema inverso: la scarsa autonomia della politica dal cattivo teatro. Perché proviene proprio dal teatro, pur rifrangendosi e propagandosi attraverso i mezzi di comunicazione dell’era digitale, lo storytelling ipnotico e compiacente che trasforma il cittadino in spettatore, lo spettatore in cliente che ha sempre ragione. Ritroviamo una degradata teatralità nel rivolgersi al popolo/pubblico in apparenza da pari a pari, sempre a conferma dei suoi supposti gusti o pregiudizi, facendo leva sull’emozione contro il ragionamento, servendosi di narrazioni suggestive per imporre indiscutibili interpretazioni della realtà.

E già, le narrazioni. Le storie. In una domanda a Donnellan, Fornasari citava il drammaturgo Simon Stephens a proposito della necessità avvertita dal pubblico, in questi anni di crisi, di sentirsi raccontare delle storie. E come non essere d’accordo con Stephens? Ma c’è storia e storia. Ci sono storie che ci aiutano ad addormentarci e storie che ci costringono a stare svegli. E’ solo di queste ultime che personalmente sento il bisogno; e di un teatro che non si limiti a raccontarle, ma ne faccia scaturire relazioni vitali, nel tempo presente. Non per distrarmi dall’oscurità che avanza, né per condannarla, ma perché possiamo attraversarla assieme, a occhi aperti.