Lo spettacolo di una morte spogliata di qualunque sacralità o aura tragica è al centro di U Tingiutu. Un Aiace di Calabria, in scena al Teatro ì di Milano fino al 30 gennaio. La compagnia calabrese Scena Verticale riesce ad evocare la violenza di un conflitto all’interno di una cosca criminale dei nostri giorni, operando un doppio spostamento: accosta a quella dell’Aiace sofocleo la parabola di un boss tingiutu, “segnato” a morte sicura per la propria insubordinazione; e cita, nel montaggio drammaturgico e nella caratterizzazione dei personaggi, uno stile da gangster movie. Assieme all’uso efficace di un dialetto che alterna felicemente un registro poetico a un altro più quotidiano e degradato, questi due accorgimenti consentono all’autore e regista Dario De Luca di creare una tensione fredda, straniante, in cui non c’è spazio per alcuna empatia del pubblico nei confronti dei criminali protagonisti della vicenda. La violenza è stilizzata, raggelante. Il parallelismo con la tragedia greca marca soprattutto una distanza incolmabile: non c’è nulla dell’antico ethos eroico nell’”onore” di cui parlano questi Aiace, Ulisse, Teucro, Agamennone, Menelao – i cui nomi stessi risuonano incongrui nel flusso della parlata dialettale. L’insulto al cadavere, tabù che in Sofocle si tenta invano di infrangere a fine tragedia, qui è il punto di partenza. L’intera azione si svolge in un negozio di onoranze funebri, dove, nella potente scena d’apertura, quattro necrofori si danno a un macabro cazzeggio intorno al corpo di Aiace. Nel mondo descritto da Scena Verticale (il nostro), la morte può diventare impunemente oggetto di un disprezzo sadico; dopo essere caduti in una sparatoria, i corpi degli attori risultano così intercambiabili con dei fantocci. Non c’è moralismo, ma una messa in questione del nostro sguardo assuefatto alla violenza, in questo lavoro che deve la sua riuscita anche alla recitazione asciutta, e davvero ammirevole nelle scene d’insieme, dei suoi cinque affiatati interpreti. Da segnalare infine il libretto, pubblicato dall’editore Abramo, che contiene oltre al testo un prezioso saggio introduttivo di Gerardo Guccini.