In occasione della recente “giornata mondiale del teatro”, numerosi lavoratori dello spettacolo hanno aderito alle iniziative di protesta lanciate, tra gli altri, da zeropuntotre e dal Movimento Sogno. Si è resa evidente la contraddizione fra l’enfasi auto-celebrativa dell’establishment politico-culturale e la brutale riduzione delle risorse pubbliche destinate al teatro, a livello statale e di enti locali. Non solo il teatro è sottoposto a tagli sempre più consistenti e indiscriminati, ma anche gli altri settori culturali e l’istruzione (come ben sa chi lavora nelle scuole e nelle università). Dal momento che l’Italia è fanalino di coda in Europa per il rapporto tra spesa per la cultura e PIL, è più che legittimo opporsi a questi tagli anche nell’attuale situazione di crisi economica. Ed è abbastanza facile, nel nostro ambiente, ritrovarsi d’accordo su questa istanza elementare.
La faccenda diventa assai complessa, però, quando dalla quantità si passa a parlare di qualità. Perché il modo in cui le risorse pubbliche vengono usate è spesso opaco e inefficiente – e la crisi sembra aggravare le storture del sistema anziché spingere verso una sua riforma. Come in altri settori della nostra economia e vita pubblica, i meccanismi di inclusione/esclusione sulla base di appartenenza politica, anzianità di servizio e fedeltà clientelare soffocano il ricambio generazionale e la progressione sulla base del merito. In questo, la continuità tra Prima e Seconda Repubblica è perfetta: sotto alla retorica della trasparenza ribolle e resiste a ogni trattamento una sorta di inconscio bipartisan, con la sua coazione a ripetere gli errori e i compromessi del passato. Ma va aggiunto che qualcosa, soprattutto nell’ultimo decennio, è cambiato. C’è stato uno spostamento di potere decisionale, all’interno dei teatri, da chi detiene competenze artistiche e tecniche a chi detiene competenze manageriali. I teatri pubblici, che per finalità e programmazione si distinguono sempre di meno da quelli privati, sono sottoposti alla stessa ideologia “aziendalista” con cui si governano le scuole, le università e gli ospedali.
L’aziendalismo all’italiana – sulla cui natura ideologica e illiberale non è qui il caso di soffermarsi – maschera sotto una presunta razionalità economica la svalutazione dei saperi di professionisti spesso altamente specializzati, come insegnanti, artisti, medici o giornalisti, i quali diventano pedine intercambiabili e precarie nelle mani di dirigenti in larga parte ignari della materia e collusi con il potere politico. Le “riforme” compiute in nome dell’efficienza portano puntualmente a una riduzione dei margini di autonomia dei lavoratori competenti e a un paradossale irrigidimento dei parametri burocratici, senza intaccare mai, o quasi, le sacche di spreco e privilegio. Nel nostro settore, questa tendenza generale si traduce in un vertiginoso abbassamento di diritti, tutele e opportunità d’impiego retribuito per un gran numero di attori, registi, drammaturghi, operatori e tecnici. Che la protesta del mese scorso sia partita da alcuni lavoratori del Piccolo di Milano è significativo e indica che la dignità professionale è ormai minacciata anche all’interno di “cittadelle” che apparivano protette dalle intemperie.
La protesta contro i tagli potrebbe dunque utilmente evolvere in un movimento a difesa delle competenze professionali che garantiscono la qualità, ancora sorprendentemente buona, del nostro teatro. Un movimento sindacale? Non saprei. Certo, le manchevolezze dei sindacati “storici” nel rappresentare gli interessi del lavoro precario, ampiamente maggioritario nello spettacolo e nella comunicazione, sono evidenti. Ma non è detto che la fondazione di nuovi sindacati rappresenterebbe un passo in avanti. Io preferisco pensare a un movimento d’opinione aperto, combattivo e nemico dei luoghi comuni. Per evitare che la battaglia in difesa della cultura risulti di retroguardia, dobbiamo analizzare meglio la realtà. Quella che abbiamo intorno, a portata di mano. Perché una protesta contro il governo può essere sacrosanta, ma chi condiziona ogni giorno il nostro lavoro non è – che so io? – il ministro Bondi, ma quel signore dietro a una scrivania (il più delle volte, uno “di sinistra”) che ci taglia la paga, ci chiede di lavorare gratis o ci rimanda a casa.