Come vizio è più dannoso del fumo, e anche più insensato, eppure sì, leggo ancora i giornali. Forse perché ho cominciato a farlo da piccolo e ne traggo una specie di morbosa sensazione di continuità esistenziale. Ma non è una giustificazione. Dovrei avere già smesso, ogni tanto riprovo a smettere, con sempre meno convinzione e più disistima per me stesso, dunque fallisco e così via. Parlo di quelli di carta – ho una certa età. Mi ha sempre dato un grande piacere tattile sfogliare quel tipo di carta. Sul piano dell’immagine, poi, ho provato una fascinazione costante negli anni per il trinomio pensionato+giornale+panchina. Non dico che da bambino sognassi di diventare quell’anziano signore che indugiava con la sua copia del “Corriere” sul versante più al calduccio dei giardinetti. Non sognavo un bel nulla, è chiaro. Ma non facevo alcuna fatica a immaginarmi al suo posto. E adesso mi parrebbe una prospettiva niente male. Chissà però se avrò mai una pensione. O se, al tempo della mia ipotetica pensione, ci saranno ancora le panchine, i giornali di carta, io… Comunque, a proposito del “Corriere”, ma non solo, il problema ovviamente sono i contenuti. Perché se si trattasse solo di sfogliare un quotidiano, senza leggerlo davvero, sarebbe tutto a posto. E invece, se non altro per passare il tempo, ci si casca e giorno dopo giorno ci si fa intasare il cervello da righe su righe di materiale tossico e inane, che impedisce di ragionare con equilibrio, che induce all’eccitazione e all’impotenza. Come le sigarette variano il proprio effetto velenoso a seconda del contenuto di nicotina e catrame, così il danno di un articolo di giornale dipende dalla testata, dalla rubrica, dalla lunghezza del pezzo, dal suo autore. E’ una questione molto soggettiva. A me per esempio, per ragioni personali che non vi sto qui a raccontare, una critica teatrale di solito fa l’effetto d’una decina di nazionali senza filtro subito dopo una diagnosi di bronchite cronica. Ma non sempre. Qui sto per raccontarvi una salutare eccezione.
Dunque, qualche settimana fa mi sono irresponsabilmente inalato per intero un lunghissimo articolo di un prestigioso critico che, col pretesto di narrare i fatti suoi, presentava le novità della prossima stagione teatrale – o viceversa. Costui si divertiva, tra l’altro, a segnalare spettacoli di vario genere che, per motivi futili e solo accennati, non vedeva l’ora di non vedere. Qualcuno dei pochi e drogati lettori, miei simili e fratelli, si è perciò indignato, come probabilmente sperava l’autore stesso. Io, invece, ho avuto una sorta di rivelazione. Per la prima volta, qualcosa che avevo letto su un giornale poteva tornarmi utile nella vita.
Ultimamente mi ritrovo a scrivere sempre di meno. Quasi niente, in verità. Con qualche oscillazione sopra allo zero. Suppongo si tratti di una sorta di blocco dello scrittore, o dello scrivente. Non è un problema per il resto del mondo, e in fondo neppure per me, senonché il vuoto della non-scrittura, anziché sospingermi su, nella leggerezza d’un’atmosfera senza parole, tende a risucchiarmi giù, dentro alla palude di un indolente malumore. Non voglio certo rimettermi a macinare faticosamente righe e cartelle. Ma ho bisogno di un desiderio che mi riscatti dalla palude, che mi accenda la fantasia mantenendomi esente da qualunque responsabilità. Ed ecco che l’intuizione geniale del luminare da giornale mi fa sbocciare nel cuore un desiderio, frizzante, negativo e sbarazzino come mai prima… Se penso a un testo che vorrei scrivere, mi viene l’emicrania o peggio. Ma se penso a un testo che non vedo l’ora di non scrivere, mi s’accalca gioiosamente nel cervello una pletora di energici concorrenti. Ne ho selezionati, per il momento, dieci:
1 – auto-fiction post-drammatica
Di che si tratta? Non di un testo teatrale vero e proprio; piuttosto di un tessuto drammaturgico volutamente sfilacciato, aperto, in costante divenire interattivo, capace di innescare una dinamica attore/spettatore che vada oltre l’orizzonte concettuale della fisica newtoniana. Ora che è tutto chiaro, resta solo da precisare che la scelta del soggetto – me stesso – non deriva da narcisismo, ma rappresenta una sfida, dato che la mia vita in apparenza non offre spunti di sorta per qualunque fiction che risulti almeno passabile. Nei sei mesi precedenti la sfida viene lanciata a sei specialisti – una sociologa, un cuoco, uno psichiatra, il mio barbiere, una copywriter, un rapper – che si dedicano anima e corpo a scovare in me qualcosa d’interessante. Si ritrovano poi davanti a un pubblico per un confronto interdisciplinare senza limiti di tempo su quanto hanno, o più probabilmente non hanno scoperto. Io assisto immobile, silenzioso, imperturbabile, infine come tutti assopito.
Titolo provvisorio: Ma perché?
2 – commedia generazionale cinica ma non troppo
Quattro, cinque, se c’è budget sei trentenni, o quarantenni, o cinquantenni (ventenni e sessantenni non funzionano altrettanto bene), amici e/o accoppiati tra di loro, si ritrovano dopo tanto tempo tutti insieme in una situazione capace di far scoppiettare le contraddizioni e le ipocrisie della loro generazione inevitabilmente immatura. Qualcuno scopre qualcosa sulla propria identità sessuale o su quella di qualcun altro. Chi sembrava una brava persona si rivela uno stronzo, chi sembrava stronzo si rivela comunque tale, ma un po’ meno. Si ride a denti stretti, ma a dieci minuti dalla fine c’è un momento commovente, che ci inumidisce un pochino gli occhi. Se fossi donna, potrei puntare sul femminile e far incontrare sei ex-amiche quarantaduenni per una partita a ramino nell’agriturismo che una di loro ha aperto da sola dopo il divorzio da un imprenditore corrotto. Un’altra delle ex-amiche, che dava tutte l’impressione di essere una mangiatrice d’uomini, a metà partita in preda all’ubriachezza racconta di avere una seconda vita, in cui… Ma basta, io non sono una donna. E comunque questa commedia proprio non la scrivo.
Titolo provvisorio: L’agriturismo
3 – adattamento colossale di un’opera ancor più colossale, meglio ancora se palesemente non adattabile
Pensate quel che volete dei teatri stabili o nazionali che dir si voglia, ma non si può disconoscer loro una certa coerenza in questo: piuttosto che investire in uffici per la lettura e trasparente selezione di copioni e progetti, sono disposti a spendere soldi, e pure molti, in progetti insensati, purché colossali. Eccone uno: il mega-adattamento di un’opera non teatrale che tutti conoscono per sentito dire ma non hanno mai letto. L’opera dev’essere lunghissima e preferibilmente non contenere azione, conflitto, banali dinamiche drammaturgiche di tipo obsoleto. Io ne ho scovata una formidabilmente adatta: il monumentale Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, quinta edizione, la controversa bibbia degli psichiatri di tutto il mondo. Ovviamente le definizioni delle malattie mentali non verrebbero drammatizzate, bensì equamente distribuite tra attori di grido, che le griderebbero al pubblico da nicchie astratte scavate nell’imponente scenografia.
Titolo provvisorio: DSM-V, Parte 1, Parte 2, Parte 3…
4 – site-specific dramaturgy per uno spettatore alla volta
Qui da drammaturgo mi trasformerei in creatore di esperienze partecipative anomale e spiazzanti, per esplorare con coraggio e radicalità i vissuti ansiogeni e poi dolorosi legati alla condizione, prima o poi inevitabile per ogni essere umano, di paziente odontoiatrico. La location è uno studio dentistico. Ci entra uno spettatore partecipativo alla volta. Si accomoda sulla poltrona reclinabile, come per venire operato, ma il dentista non c’è. In compenso c’è un raffinato ambiente sonoro che ti immerge nell’atmosfera – ovattata e squassante – dell’estrazione di un dente del giudizio. Misto a sonorità iper-realistiche delle apparecchiature e a lamenti e imprecazioni registrati di pazienti veri, scorre nell’ambiente un flusso di coscienza multilingue, un mix di ventiquattro voci di volontari di diverse parti del mondo, a cui è stato chiesto di raccontare cosa gli passa per la testa quando sono sotto i ferri del dentista. In una variante ancora più squassante del progetto, ma decisamente meno ovattata e riservata solo ai critici che ne facciano espressa richiesta, un dente viene estratto davvero e me ne occupo io di persona.
Titolo provvisorio: Tooth Extraction Experience
5/6/7/8 – Narrazione, narrazione, narrazione, narrazione
Quattro monologhi d’impegno sociale al prezzo di uno. Ripulirsi la coscienza non è mai stato a così buon mercato, dai tempi in cui i papi vendevano le indulgenze. Al tempo stesso, non si potrà non ammirare la prestanza fisica ed emotiva del solitario narratore, che senza soluzione di continuità ci porterà a indignarci ed empatizzare per quattro ore di fila sui seguenti macro-temi: Migrazioni, LGBT, Mafia, Morti sul lavoro. Chi assiste al tutto senza alzarsi per andare in bagno ha diritto a un’indulgenza plenaria.
Titolo provvisorio: Andate in pace
9 – Shakespeare migliorato da me
La falsa modestia è un morbo che l’ambiente teatrale sembra avere definitivamente debellato. Ma non si sa mai, un’improbabile epidemia potrebbe in un lontano futuro scatenarsi, se abbassiamo troppo la guardia. Questo progetto – uno spregiudicato montaggio di scene da Amleto, Giulio Cesare e Riccardo II con ampi brani del mio diario adolescenziale – si propone come vaccino definitivo. L’assoluta convinzione che, per esempio, le mie elucubrazioni del marzo 1983 (intorno agli sguardi più o meno ricambiati da una mia compagna di ginnasio della sezione A) non sfigurino affatto accanto al famoso monologo in carcere di Riccardo II, e anzi diano più valore e spessore di contemporaneità al monologo stesso, si trasferisce per irresistibile osmosi dall’autore a pubblico e critica, cambiando faccia per sempre, e in peggio, alla Storia del Teatro.
Titolo provvisorio: Tutto sui miei brufoli (si ringrazia per la collaborazione W.S.)
10 – Didascommedia
Una commedia fatta solo di didascalie (irrealizzabili) e magari di discorso indiretto. Idea non del tutto originale, ma ancora molto cool, europea, perfetta per farsi tradurre in tedesco e lagnarsi di non venire capiti in Italia. Ho sempre desiderato farmi tradurre in tedesco e non venire capito in Italia. Ho così centrato almeno uno dei due obiettivi, scrivendo copioni fatti in parte di didascalie (irrealizzabili) e magari di discorso indiretto. Questo tentativo sarebbe però più radicale, estremo, a partire dal titolo:
Keine Gegenstaende Aus Dem Fenster Werfen
A questi magnifici dieci si dovrebbero poi aggiungere tutti quei testi che non vedrei l’ora di non scrivere – ma ormai è troppo tardi: li ho già scritti. Complessivamente, comunque, si tratta di una non-impresa colossale, che un po’ mi inorgoglisce.
Guardo fuori dalla finestra.
E’ un tiepido inizio d’autunno. La temperatura sembra quella ideale.
I giardinetti sono, come sempre, vicini.
Dal mio punto d’osservazione mi accerto che la mia panchina preferita, ben esposta al sole, sia completamente libera.
Il giornale l’ho già comprato, ma è intonso.
Lo ripiego in quattro sotto a un braccio, poi m’infilo il cappello.
La mia assenza di futuro mi aspetta fuori, e per la prima volta le vado incontro con mente perfettamente sgombra.