Il lavoro del dramaturg ha non pochi inconvenienti, primo tra i quali l’estrema difficoltà di darne una definizione. Un dramaturg, inoltre, quasi sempre risulta tanto più efficace quanto meno il suo intervento in uno spettacolo si fa notare; donde, credo, lo scarso appeal di un simile mestiere dalle nostre parti. Poi, però, ci sono anche le soddisfazioni; soprattutto quando si ha l’opportunità di partecipare a percorsi artistici pluriennali approfonditi e coerenti, in cui la presenza di una figura critico-creativa di spettatore interno (ed ecco coniata la duemilaedodicesima definizione del mestieraccio) acquista senso e necessità. E’ questo il caso della mia collaborazione con il Teatro delle Moire per la trilogia che, dopo Never Never Neverland e It’s always tea-time (su cui ho scritto qui), si conclude con PlayRoom, in scena al LachesiLab di Milano dal 27 settembre.
Sono tutti e tre spettacoli privi o quasi di testo, in cui il montaggio delle partiture d’azioni create dai performer in fase laboratoriale viene deciso dai registi Alessandra De Santis e Attilio Nicoli Cristiani; dunque, più che occuparmi della costruzione drammaturgica in senso stretto, su cui al massimo do qualche consiglio, stimolo e coordino la raccolta di materiali (letterari, filmici, iconografici, ecc.) che alimentano il processo di creazione scenica e porto avanti una riflessione su come il linguaggio teatrale li rielabori e investa di nuovi significati. C’è un tema comune ai tre lavori, più esplicito e visibile di altri, quello dell’infanzia rivista e rivissuta da adulti, che ci ha indotto ad avvicinarci e liberamente attingere a classici come Peter Pan, o Alice nel Paese delle Meraviglie, o – per PlayRoom – Il signore delle mosche di William Golding. Nell’evoluzione del progetto, passando da uno spettacolo al successivo, a me pare che siamo progressivamente sprofondati nella materia, lasciando perdere ogni residuo intento dimostrativo. Mi spiego meglio: quando in teatro si viene invitati, o ci si auto-invita a lavorare su un tema, è forte la tentazione di usare la scena per esprimere un’opinione, illustrare concetti, o, peggio ancora, fare la morale a qualcuno. Del resto, un simile approccio è fortemente incoraggiato dal sistema produttivo e dalle aspettative di parte del pubblico. Io continuo a preferire, al contrario, un teatro che non dichiara http:\\/\\/renatogabrielli.ita, che attinge alla realtà per aprire dei vuoti, che trova la possibilità di emozionare nella piena autonomia del proprio linguaggio.
Insomma, se nella preparazione primo spettacolo, Never Never Neverland, retrospettivamente devo riconoscere di aver coltivato, per esempio, velleità di denuncia della labilità identitaria e dell’infantilismo contemporanei, http:\\/\\/renatogabrielli.ita del genere mi è passato per la testa collaborando a PlayRoom. Non c’è niente da denunciare, qui, e tantomeno da dimostrare. Non c’è un discorso sulla crudeltà infantile, o rivolta contro l’infanzia, ma c’è semplicemente quella stessa crudeltà, messa alla prova. Tre adulti/bambini (oltre a De Santis e Nicoli Cristiani, Gianluca De Col) condividono uno spazio chiuso senza spiragli, che è la stanza dei giochi ma anche della rappresentazione – di un gioco teatrale preso terribilmente sul serio. Hanno a che fare con una perdita luttuosa e inspiegabile, con la lontananza di un “mondo dei grandi” che viene ossessivamente rievocato, parodiato, rimpianto; ed è fondamentale, in questo loro gioco nostalgico e febbrile, il rapporto con un flusso sonoro quasi continuo, proveniente da un altrove imprecisato e composto in larga parte da spezzoni di vecchi film, talora suggestivi e rassicuranti, talaltra portatori d’inquietudine. Come Ralph, il giovanissimo protagonista del romanzo di Golding, naufrago con altri bambini e ragazzini su un’isola deserta, queste tre figure non perdono però mai la speranza di riprendere contatto con il mondo esterno, di essere salvate. Il fuoco tenuto acceso sull’isola per segnalarsi ad eventuali navi di passaggio nel Signore delle mosche ci ha dato lo spunto per i ricorrenti tentativi di richiamare l’attenzione d’adulti lontanissimi da parte dei tre giocatori di PlayRoom; mentre per la crudeltà tra di loro, più che alla crescita esponenziale di violenza in Golding, ci siamo ispirati agli “esercizi” dei due gemelli nel primo libro della Trilogia della città di K di Agota Kristof.
Tra i motivi di personale soddisfazione per aver partecipato a questo viaggio triennale, spicca lo sviluppo e arricchimento dei codici espressivi della compagnia. Una caratteristica distintiva del Teatro delle Moire è sempre stata l’alta cura estetica nella composizione d’immagini; è una caratteristica che, pur provenendo da un background teatrale completamente diverso (o forse proprio per questo), ho sempre rispettato e cercato di assecondare. Mi pare che di anno in anno questo punto di forza venga sempre più integrato da un’accresciuta qualità drammatica, di rappresentazione di conflitti, nel lavoro performativo; questa intensità squisitamente teatrale – ottenuta senza bisogno di ricorrere a un impianto drammaturgico narrativo, o alla costruzione di veri e propri personaggi – raggiunge a mio avviso un apice in PlayRoom, che si configura così non solo come chiusura di un trittico, ma come punto di partenza per nuove e ancor più coraggiose esplorazioni.