L’epidemia di buon senso che da qualche mese ha colpito l’Italia a me pare buffa e, per certi versi, un po’ sospetta. Sarà forse perché i toni esasperati del dibattito pubblico del passato ventennio, smorzandosi all’improvviso, fanno risaltare come oracoli di saggezza le più scontate ovvietà.

“Niente cultura, niente sviluppo” afferma perentorio il manifesto pubblicato circa una settimana  fa dal “Sole 24Ore”. Davvero? Chi l’avrebbe mai detto? Questa è una scoperta sconvolgente; ci metteremo un bel po’ ad abituarci all’idea. Ben venga comunque la “rivoluzione copernicana” proposta nel manifesto, col suo lancio di una costituente per la cultura e i suoi cinque punti programmatici ampiamente condivisibili – e molto condivisi, a giudicare dalla quantità e qualità di firme già raccolte. Aggiungo la mia modesta adesione, ma con un piccolo appunto agli estensori del manifesto: il paragone delle “macerie” di questi nostri giorni con quelle dell’Italia del secondo dopoguerra suona un po’ sopra le righe, anche perché la guerra civile da cui si usciva allora era reale, non di cartapesta, ed era abbastanza chiaro chi fosse vincitore e chi sconfitto. Dettagli, per carità. Fa piacere leggere sul quotidiano della Confindustria che dobbiamo “ripensare radicalmente il nostro modello di sviluppo” e che “la cultura deve tornare al centro dell’azione del governo”. Tra i punti programmatici del manifesto c’è la cooperazione tra diversi ministeri a sostegno della cultura; ed ecco, come per incanto, che ben tre ministri – Ornaghi (Beni culturali), Passera (Sviluppo economico) e Profumo (Istruzione) – si siedono intorno a un tavolo per scrivere assieme un’incoraggiante lettera di risposta. Sembra un altro paese, rispetto a quello del tremontiano “la cultura non si mangia”, in cui le arti, l’istruzione e la ricerca erano campo di battaglia tra retoriche contrapposte. Ora la cultura pare non avere più nemici, mentre fino a pochi mesi fa ne contava davvero troppi: quelli chiassosi, gli aggressivi e pittoreschi esponenti della pornocrazia berlusconiana; e quelli occulti, spesso addirittura inconsapevoli, i chierici monologanti di una borghesia di sinistra in larga parte velleitaria e incapace di coerenza. E, sì, la guerra civile senz’armi di cui costoro sono stati protagonisti ha lasciato delle virtuali macerie. Ma a chi tocca gestire la ricostruzione? Rispetto all’anno scorso, le classi dirigenti non sono cambiate, a nessun livello. Neanche nelle istituzioni culturali. Perciò il moto d’entusiasmo con cui accoglierei la lettera dei tre ministri è temperato da un po’ di sana diffidenza.

Di innegabilmente molto positivo e concreto, nella missiva di cui sopra, c’è l’esplicito impegno a opporsi a ulteriori tagli a cultura e istruzione, pur nel minaccioso contesto della cosiddetta spending review. Il resto risulta ben intenzionato e un po’ vago. Facciamo un esempio:

“La nuova conoscenza si genera anche attraverso i cortocircuiti che avvengono nella rete sociale, si alimenta nelle interazioni che si sviluppano tra le persone, le piattaforme che mettono in comunicazione. Questa creazione di valore è libera e non imposta, è bottom-up e non top-down. Un Governo non può produrla dall’alto ma può generare le condizioni perché emerga: siamo chiamati a garantire che le reti funzionino, abbiamo la responsabilità di eliminare gli ostacoli all’espressione della creatività.”

Non si capisce bene quali sarebbero questi “ostacoli all’espressione della creatività”. Secondo me, in Italia, la creatività si esprime a go-go; è la possibilità di costruire un percorso professionale sulla base del proprio talento creativo che è messa a rischio grave (come già ho cercato di argomentare qui). Per questo, sarebbe importante garantire un welfare affidabile e decente ai lavoratori della conoscenza e dello spettacolo; ma le prime mosse di questo governo non sembrano andare in tale direzione. Quanto alle benedette “reti” che si formano dal basso – e che ogni amministrazione politica a corto di quattrini si ripromette di aiutare a costo zero – teniamo presente uno spiacevole dato di fatto: non si può offrire loro uno spazio di crescita reale senza intaccare le rendite di posizione di chi gestisce il potere nei teatri pubblici, nella televisione di stato, nelle università, ecc.  E’ questo che si appresta a osare il nostro intrepido governo tecnico? Io, nel mio piccolo, dal basso, anzi bottom-up, esprimo questa speranza. Chissà, magari top-down faranno qualcosa di buono. Incrocio le dita, o meglio, tecnicamente parlando, I keep my fingers crossed.