E’ di ieri la notizia che il Fondo Unico per lo Spettacolo, già brutalmente tagliato di oltre il 40% da questo governo, vedrà “congelati” altri 27 milioni. Non manca il consueto contorno grottesco: il ministro della cultura (un signore che da mesi cerca di dimettersi ma, per un suo peculiare senso di responsabilità, non ci riesce) leva alti lamenti contro il ministro dell’economia  (un altro signore che a suo tempo, con arroganza padronale, ha buttato là la frase “La cultura non si mangia” – e poi si è divertito a vedere sommi intellettuali che lo prendevano sul serio, con tanto di lettere aperte su “Alfabeta”). Questi tagli, a cui si sommano quelli ancor più gravi e già effettivi agli enti locali, non sono accompagnati da alcuna idea di  ristrutturazione meritocratica o riordino del settore. Anzi, come prevedibile, la presa della cattiva politica e delle clientele sull’annaspante teatro pubblico si sta facendo ancora più feroce. Non si spreca nemmeno più tanto fiato, come per la scuola e l’università, a straparlare di “riforme”. Si taglia. Si lottizza. Si rende la residua spesa statale per la cultura terreno di meschini dispetti tra fazioni ministeriali. Puro disprezzo.

Il 5 marzo una benemerita trasmissione di RadioTre, “Piazza Verdi”, ha mandato in onda un dibattito sul tema “Il valore della cultura”. In quell’occasione, Federculture ha annunciato per il 26, 27 e 28 di questo mese tre “Giornate Nazionali per la Cultura e lo Spettacolo”, organizzate insieme ad Agis, Anci, Upi e Conferenza delle Regioni. Tra i presenti al dibattito, il solo Oliviero Ponte di Pino ha auspicato che queste Giornate siano un po’ più incisive dello sciopero/serrata dello spettacolo proclamato dalle principali sigle sindacali e aziendali lo scorso novembre di lunedì, cioè in un giorno che per i teatri è di riposo. Non è il caso di infierire, data la sicura buona fede di chi l’ha proclamato, ma va pur detto che uno “sciopero del riposo” è possibile solo nel paese della nipote di Mubarak – un paese in cui è saltato il patto costituente implicito che precede ogni Carta scritta: quello tra linguaggio e realtà.

Il programma delle Giornate è in via di definizione, ma è già chiaro che ci sarà una “campagna di comunicazione” volta a informare e sensibilizzare un pubblico ampio. Benissimo: la comunicazione è importante. Ma ancora più importante è la credibilità di chi sta comunicando. Per questo, continuo a pensare che uno sciopero “vero” sarebbe utile, anche solo per sottolineare una messa in gioco dei propri interessi proporzionata alla veemenza delle pubbliche dichiarazioni. Purtroppo, il teatro italiano sovvenzionato si è adattato per decenni a una pigra opacità di rapporti con il potere politico – soprattutto quando quest’ultimo si presentava sotto le spoglie più amichevoli e generose del centrosinistra. Ora che l’invadenza e l’incompetenza di tale potere hanno superato il livello di guardia e mettono a rischio il sistema stesso, si rende necessario cambiare registro. Minoritari ma combattivi, i precari dello spettacolo del movimento zeropuntotre stanno indicando una strada (qui trovate il documento letto da Alessandro Riceci al convegno torinese delle Buone Pratiche). Ma si può dare anche un’occhiata all’estero, in cerca d’ispirazione.

In Inghilterra, per esempio, il progetto Theatre Uncut si collega a una più ampia opposizione ai tagli alla spesa pubblica del governo Cameron e vede impegnati sette drammaturghi di primo piano, tra cui David Greig, Dennis Kelly e Mark Ravenhill. Proprio Ravenhill, in un articolo pubblicato sul “Guardian” del 26 febbraio (che non ho ritrovato nell’edizione online) non si astiene dal polemizzare con i teatri sul tema del lavoro sottopagato. In Inghilterra, come qui, i giovani lavorano per anni con paghe nulle o ridicole, sicché di fatto l’accesso alle professioni teatrali sta diventando riservato ai soli benestanti. In Inghilterra, come qui, c’è un crescente squilibrio di potere e risorse, all’interno dei teatri stessi, a vantaggio del management e degli uffici di marketing e a danno di artisti e tecnici (Ravenhill affronta l’argomento in quest’altro articolo). Tutti problemi, questi, che non derivano da un’astratta fatalità, ma da precise e concrete scelte. Bisogna che, mentre procede la protesta contro i tagli, anche tali scelte siano rimesse in discussione, perché la pura e semplice difesa dell’esistente non ci porterebbe da nessuna parte.