Non ha più niente da imparare e del resto a cosa le servirebbe, a questo punto, il punto del futuro in cui sapere e realtà avranno perso ogni ombra di contatto e sarà rimasta soltanto, a testimonianza di una civiltà estinta, l’ostinata imprecisa memoria delle parole dei maestri, dei silenzi dei maestri, della presenza generosa e sferzante dei maestri, almeno per chi ha avuto la fortuna di averlo, un maestro, come lei, che avanza lentamente, cautamente tra le sale irriconoscibili di quella che un tempo fu la biblioteca, da suoi calcoli accurati dovrebbe infatti trovarsi proprio qui ciò che resta della biblioteca, benché le sue rovine non siano distinguibili da quelle degli edifici circostanti, né le ceneri spesse e soffici sul terreno riconducibili con certezza alle migliaia di libri un tempo qui ospitati, o alle ossa dei loro lettori, tra cui lo studioso libero e schivo che lei tra sé e sé ha sempre chiamato maestro e ora, succube di una nostalgia superstiziosa che lui avrebbe disapprovato, vorrebbe rievocare a mo’ di spettro, ma la distruzione è penetrata così a fondo che questo luogo non evoca più nulla, nemmeno se le macerie in quell’angolo fossero proprio nel punto esatto dei loro incontri ricorrenti e il più del tempo silenziosi, il maestro nemmeno in forma transitoria e trasparente tornerebbe a farsi vivo, con quel suo sorriso mite per esempio con cui apriva un libro e poi ogni riga, ogni frase, ogni parola di quel libro, trasmettendole il vuoto di ogni apertura, vuoto su vuoto un’eredità sconfinata che lei però non potrà trasmettere a nessuno, imprigionata com’è nella sua perfezione d’allieva, perché l’hai fatto, maestro, lei pensa, perché mi hai detto di scappare, volevi salvarmi o condannarmi o entrambe le cose, gli chiede, si chiede, finché le viene un sospetto, l’irrealtà apocalittica del paesaggio le fa ipotizzare di star camminando non sulla terra ma nella mente del maestro, pochi minuti prima della catastrofe o Riforma che ha da tempo previsto senza potervisi opporre, l’allieva si sfiora un braccio, si tocca la pancia e capisce che i confini del suo corpo sono troppo ben delineati per essere reali, la sua sagoma di donna un po’ troppo giovane, un po’ troppo bella si staglia con eccessivo nitore contro uno sfondo plumbeo indefinito, ah dunque è così, è questo che speri, con le mani tra i capelli radi, chino sul ripiano della tua grande scrivania, nella tua testa giovane e vecchia, mio maestro carogna precoce, tu speri di lasciarmi il tuo vuoto e una bellezza aliena, dice l’allieva mentre nel suo corpo immaginario matura il germe reale di una risata, tu speri, speri che qualcuno, io, perché io, ma no, ma va’, ti ricordi, ti rimpianga, torni a cercarti, ti abbia amato in fondo e questa è la cosa che più mi fa, scusa eh, scusa, e ride, ride e le onde eccentriche di quel riso squassano i contorni eleganti dell’allieva, la sua silhouette impeccabile si sbriciola e dissolve nell’ampio quadro desolato della morta biblioteca, il suono della sua voce persiste e si confonde con quello del vento, il vento è forse un piccolo dolore nella testa di qualcuno, questo cielo di piombo il residuo di un sogno abbandonato, alla deriva, senza più padrone.