“L’autore italiano: una specie da proteggere?” – al titolo dell’articolo, intelligente e ben documentato, di Pino Tierno sull’ultimo numero di Hystrio (ottobre-dicembre 2012, pagg. 14-16) vorrei rispondere, tirate le somme: “No”. Gli autori italiani di teatro non mi sono mai parsi una categoria – figuriamoci una specie. Ciò che andrebbe a mio avviso non protetto, ma promosso, riconosciuto e dignitosamente retribuito, è il lavoro drammaturgico nelle compagnie di ogni livello. Tale riconoscimento dovrebbe avvenire in primo luogo all’interno del mondo del teatro, senza contare troppo, almeno inizialmente, sull’ascolto delle istituzioni.

Ma il ragionamento svolto da Tierno va ben oltre la sintesi necessariamente provocatoria del titolo e prende le mosse da una disamina della situazione della drammaturgia contemporanea nel nostro Paese che condivido appieno. I cartelloni della stagione teatrale 2012-2013 confermano l’avversione al rischio della stragrande maggioranza di chi li programma: la loro reazione alla crisi appare puramente difensiva, animata dall’ansia d’andare sul sicuro – e si sa che http:\\/\\/renatogabrielli.ita fa sentire insicuro un produttore quanto una bella novità italiana… Le differenze con altri sistemi teatrali europei, che Tierno grazie al suo percorso professionale conosce bene, sono enormi e per noi umilianti. Le responsabilità del teatro pubblicamente sovvenzionato, e in primo luogo degli Stabili, nell’emarginazione della nuova drammaturgia italiana sono innegabili e note da tempo. La promozione all’estero, soprattutto dopo la chiusura dell’E.T.I., è irrisoria. Da insegnante di drammaturgia alla “Paolo Grassi” di Milano – l’unica scuola in Italia che propone un corso triennale per autori di teatro – concordo infine con l’autore dell’articolo quando sottolinea la necessità di fare molto di più sul versante della formazione. Dubito però che possa avere un’efficacia la sua proposta di “farsi sentire con forza presso gli Stabili e il Ministero dei Beni Culturali, in quanto sono proprio le istituzioni a doversi impegnare in primis per la promozione della nuova drammaturgia”.

Certo, in astratto è difficile dare torto a Tierno, soprattutto se ci s’intende sull’idea che promozione non coincide con protezione, e se ci siamo lasciati alle spalle per sempre il proposito anacronistico e pernicioso di imporre delle “quote” di drammaturgia contemporanea nella programmazione dei teatri pubblici. Le istituzioni potrebbero – è chiaro – trovare modalità innovative e rigorose per sostenere lo studio e la conoscenza del lavoro degli autori teatrali in patria e all’estero. Ma, in concreto, stiamo parlando di queste istituzioni, incapaci da decenni di autoriforma; stiamo parlando di un teatro pubblico la cui credibilità complessiva è ormai ridotta al lumicino. In un contesto del genere, anche delle ottime idee di rilancio della nuova drammaturgia “dall’alto” verrebbero applicate in maniera discutibile e opaca. Lo ripeto da tempo, fino ad annoiare e annoiarmi, anzi giuro che questa è l’ultima volta e non lo dirò mai più: non si può proporre alcuna decente riforma del sistema teatrale senza prima passare attraverso la pubblicazione pienamente accessibile di bilanci e paghe. Su ciò aggiungo (e poi davvero mi taccio) che è davvero singolare un Paese la cui cosiddetta società civile pretende sbraitando dai rappresentanti politici la stessa trasparenza che contrasta nei propri ambiti professionali.

E “dal basso”, invece, si può fare qualcosa? Anche se fatico a vedere l’autore teatrale come parte di una specie o categoria, c’è un punto su cui mi piacerebbe portare avanti una battaglia collettiva – diciamo pure sindacale o corporativa – assieme ai miei colleghi panda: non per farci proteggere da qualcuno, ma per allentare una protezione troppo soffocante. Provo a spiegarmi meglio. In un recente incontro con gli allievi autori della “Paolo Grassi”, Fausto Paravidino metteva in evidenza come, nell’ambito di una produzione di nuova drammaturgia, sia solo l’autore ad assumersi pienamente il rischio di fallimento. Salvo rare eccezioni, il suo lavoro non viene retribuito prima dell’andata in scena e il compenso consiste esclusivamente nei diritti riscossi dalla S.I.A.E. Il guadagno è dunque strettamente legato al numero delle repliche – oltretutto, in una congiuntura che vede la distribuzione teatrale vicina al collasso.

A mio avviso, ottenere dai teatri che il lavoro drammaturgico venga considerato alla stregua di tutti gli altri nella fase di allestimento, trovando forme sostenibili e serie di garanzia contrattuale, è un obiettivo difficile che varrebbe la pena di perseguire; ma al contempo dovremmo avere il coraggio di rimettere in discussione i modi di funzionamento della tutela S.I.A.E. L’applicazione di tariffe minime piuttosto alte, a prescindere dagli incassi, ostacola anziché favorire la messinscena di nuovi testi; e se un autore, come spesso accade, fa parte di una piccola compagnia, si ritrova a versare alla Società contestualmente all’andata in scena la quota minima a sé destinata, per poi vedersela rendere, decurtata da commissioni, dopo circa un anno. Sul breve termine, una riduzione o abolizione delle tariffe minime potrebbe fare da contrappeso alla maggiore spesa chiesta alle compagnie per pagare autori e dramaturg durante le prove. Sul lungo termine, ma non lunghissimo – e con il massimo rispetto per i molti validi professionisti che lì lavorano – credo che l’anomalia italiana del monopolio para-statale della S.I.A.E. sui diritti d’autore sia indifendibile.

Insomma, l’autore/panda non ha bisogno di protezione, ma di un po’ più d’aria pulita attorno; e in questo assomiglia parecchio agli altri animali che popolano quello strano zoo al coperto, senza guardiani e senza vie d’uscita che porta il nome di teatro italiano.