UN TETTO SULLE SPALLE

Genera un’immagine in cui io non ci sono, ma mi trovo lì, appena fuori dai suoi margini, ad appena un passo. Non ti dico chi sono, non ti descrivo il mio stesso aspetto, perché ciò è irrilevante ai fini della composizione dell’immagine. Benché sia importantissimo per infiniti altri aspetti. Voglio che due pareti formino un angolo di novanta gradi nel mezzo dell’immagine e voglio che siano bianche; anche il pavimento dev’essere bianco, ma di un’altra tonalità, non importa quale, scegli tu quale, basta che sembri il pavimento di un museo d’arte contemporanea. Le sfumature sono importanti. Pure l’uomo, la statua: bianco, di un altro bianco. Ma andiamo con ordine. Non ci saranno figure umane nell’immagine, tranne l’uomo, appunto, che però non è vivente – e nemmeno morto. Diciamo che si tratta di una figura tridimensionale che rappresenta, con un certo realismo quanto a proporzioni del corpo, un essere umano di sesso maschile. Non è realistico il fatto che sia – come ti raccomandavo – tutto bianco. Né il fatto che regga sulla schiena una specie di tetto rovesciato, a due spioventi, dalle tegole semicilindriche di tre sfumature di marrone in alternanza. Il finto tetto è fissato al finto corpo dell’uomo tramite grosse corde di canapa che s’incrociano sul suo busto e gli cingono il bacino. La parte per il tutto: il tetto, con ogni probabilità, rappresenta una casa intera; l’uomo, un’ampia parte dell’umanità. Ma questo non ti deve interessare. Con l’immagine, per ora, fermiamoci qui.

Adesso genera un breve testo narrativo il cui protagonista dev’essere un signore di circa cinquantotto anni che frequenta musei d’arte contemporanea per sviluppare e affinare la propria sensibilità. Non una sensibilità estetica, in particolare per l’arte contemporanea, ma la sua sensibilità, così, in generale – dato che gli pare di averne poca. Il racconto comincia già dentro questo museo; il protagonista si aggira per corridoi bianchi, per sale bianche. Non dare troppo spazio alla descrizione del museo, basteranno quattro righe. Il protagonista ha in tasca uno smartphone dalla fotocamera potente, ma non sa se usarlo, esita, teme che scattando foto metterebbe una sorta di diaframma all’esperienza, e nuocerebbe così allo sviluppo e affinamento della sensibilità di cui sopra. D’altra parte, se non scatta foto (e alla fine non ne scatta mai), dopo pochi giorni o poche ore si dimentica integralmente il contenuto, qualunque contenuto di un museo d’arte contemporanea – e ne ha ormai visitati decine. A un certo punto si ritrova davanti alla statua tutta bianca di un uomo curvo per il peso di un tetto rovesciato a due spioventi fissatogli sulla schiena con robuste corde di canapa. Osserva la statua a una distanza di due metri circa, né frontalmente, né di profilo: di tre quarti, come si suol dire. Si ferma lì in un’esitazione prolungata, palpando nervosamente con i polpastrelli lo smartphone sul fondo della tasca destra del giaccone invernale. Mi rendo conto che non succede granché, esteriormente. Ma tu cerca di raccontare i movimenti interiori del protagonista, frenetici quanto vani. Stile neutro, asettico, da referto clinico. Lunghezza massima: una cartella. Grazie.

Torniamo pure all’immagine. C’è qualcosa che non mi convince. Togli quella smorfia di dolore dalla faccia della statua. Chi ti ha detto di metterci del dolore? O meglio, l’espressione del dolore, della fatica? Il dolore e la fatica devono stare negli occhi di chi guarda. Diamo solo gli elementi essenziali per poterli immaginare. Bene, vanno già bene, per esempio, le due gambe leggermente divaricate, con i piedi in apertura di quarantacinque gradi, con le ginocchia un po’ flesse, come a sostenere un grande peso. Il tetto.

Che cosa pensa, il protagonista, di questo tetto? Intanto chiama pure il protagonista Roberto, non perché in effetti si chiami così, non ha nessuna importanza, ma per non continuare a chiamarlo il protagonista, il protagonista, il protagonista. Scrivi quel che gli passa per la testa in uno solo dei parecchi minuti trascorsi ad osservare questa opera d’arte contemporanea. In un minuto, statisticamente, vengono prodotti centinaia, se non migliaia di pensieri. È importante che tu inserisca, in forma più articolata, almeno questi:

  • La tematica di quest’opera d’arte è così evidente – la condizione del profugo, del migrante, l’uomo col tetto sulla schiena rappresenta ovviamente i profughi, i migranti – che non può essere la tematica vera, o la sola; c’è sotto qualcos’altro, ma cosa?
  • Ho appuntamento con Francesca alle 13.15 al bar del museo.
  • Ho già preso tre caffè stamattina.
  • Qui si parla di viaggi, si allude a migrazioni, ma è una statua, il dolore è statico, la fatica è statica e non è la mia. Perché non provo empatia? Perché faccio sempre tutta ‘sta fatica a immedesimarmi?
  • Non mi ricordo chi è l’artista.
  • Non mi ricordo chi sono io.
  • Adessso me lo ricordo, è stata l’amnesia di un momento, forse non ho preso abbastanza caffè.
  • Ma forse l’artista vuole proprio questo, che io (lo spettatore) mi ponga delle domande, sull’empatia, le migrazioni, eccetera. L’arte è così, quella contemporanea.
  • Così, come?
  • Ti fa porre delle domande.
  • Allora, la scatto o no questa foto?

Ora componi una musichetta, una canzoncina. Un motivetto che risuona nella testa di Roberto ogni volta che sta per prendere una decisione – e lo distrae, lo fa irritare con se stesso, lo svia. Dev’essere una cosuccia allegra, di carattere estivo, quasi da spiaggia, ben ritmata. Gli viene (e non vorrebbe) da ondeggiare, da ancheggiare, da battere a tempo con un tacco. Il testo della canzoncina non è importante, se non per la sua futilità. Non comporlo integralmente, non serve, perché lui ne ricorda solo poche e sparse parole, tra cui: “sa-sa-sabato sera”, “labbra rosse Coca-Cola”, “poi me ne restano mille”, “con due occhi più grandi del mondo”; disposte in un ordine a tua scelta.

Mentre si ripresenta per l’ennesima volta al suo udito interiore, non invitato, l’allegro ritornello, componi per Wikipedia una succinta biografia di Roberto, da cui si desume che non c’è nessun motivo per cercare su Internet la sua biografia. Non ha mai fatto nulla di notevole. Costruiscigli un curriculum di vaghi studi umanistici e di impieghi intermittenti di secondo piano nell’industria culturale. Ha scritto un libro, autopubblicato, sulla nostalgia per gli anni ottanta. Inventa un titolo buffo per quel libro. È sposato, ma non con la Francesca che lo aspetta al bar del museo. Con un’altra donna che si chiama Francesca. Ha sempre abitato nella stessa città. Ha opinioni politiche convenzionali, equilibrate, perlopiù inespresse. Hobby e interessi: gatti, figurine Panini dei calciatori degli anni ottanta, l’arte contemporanea.

Ritorna sul testo con i pensieri di Roberto davanti a quest’opera d’arte contempornea e aggiungi il seguente:

“Ha i capelli!… Stilizzati, compatti e bianchi dello stesso bianco di tutto il resto, segnati solo da una linea sulla fronte e da un leggero rilievo; ma questa statua ha i capelli; e io no.”

E poi anche:

“Io sono la corda. Riesco solo a identificarmi con la corda che gli stringe il bacino, che gli s’incrocia dolorosamente sul petto. Ma non mi sento in colpa, anzi provo un piacere astratto e perverso. Questo pensiero è stupido, non devo assolutamente condividerlo con Francesca al bar. Ma allora cosa dico a Francesca al bar? Potrei mostrarle una foto. Scatto una foto?”

È evidente che Roberto non scatterà una foto, non lo fa mai. Prepara per lui un video tutorial personalizzato su quattro modi efficaci di comunicare la propria esperienza di quest’opera d’arte contemporanea a una donna che si chiama come sua moglie ma non lo è; al bar. Contempla, nel tutorial, l’eventualità che Francesca non sia per nulla interessata all’argomento; e fornisci temi di conversazione alternativi.

L’immagine adesso è perfetta.  Mi piace che non ci siano ombre, che la statua non faccia ombra, che non si capisca da dove proviene la luce. È bellissimo non esserci dentro. Roberto è andato al bar, passando prima dal bagno, alla sua età ha bisogno di andarci più di frequente. Butta nel cestino i materiali su Roberto, sono byte sprecati, non ricordo nemmeno perché te li ho chiesti.

Un’ultima cosa: ritaglia quest’immagine come se fosse su carta leggermente patinata, delimitata dalle quattro linee impeccabili di un rettangolo esatto. Sì, l’hai già capito (tu capisci tutto): ora occupa per intero una pagina del catalogo di una mostra d’arte contemporanea. Un bel catalogo spesso, sulla cui copertina domina, ancora, il bianco.

Ma non visualizzare la copertina. Chiudi quel catalogo con un movimento brusco e regalami un attimo di buio.